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Jannik Sinner lo ha salutato dicendo che "è stato un privilegio fare una parte del mio percorso con te, condividendo lo stesso campo". E molti altri colleghi si sono accodati al numero 1 per un tributo a una persona che tutti (o quasi) avevano imparato ad apprezzare
19 gennaio 2025
Nel 2024 è stato un lungo tour di addio, di abbracci e di celebrazioni. Ma lui non è un top player e non è nemmeno un giocatore. Semplicemente, è un arbitro che ha diretto per 40 anni esatti, prima di dire basta. Un arbitro che ha fatto il proprio dovere: farsi notare il meno possibile. Alla faccia dell'egocentrismo che domina i nostri tempi. Un arbitro che, proprio per questo, era amato dal pubblico come fosse uno di famiglia.
Carlos Bernardes, brasiliano di Sao Caetano do Sul, 60 anni, ha lasciato il mondo del tennis dopo le Finals di Torino e quelle di Davis a Malaga. Jannik Sinner, che ha vinto entrambi gli eventi, da solo e con l'Italia, lo ha salutato dicendogli che "è stato un privilegio fare una parte del mio percorso con te, condividendo lo stesso campo". E molti altri colleghi si sono accodati al numero 1 per un tributo a una persona che tutti (o quasi) avevano imparato ad apprezzare.
Tra mille ricordi di ottomila e più partite, tra aneddoti piacevoli e meno, tra nostalgia e tecnologia, Bernardes adesso si ferma e racconta tutto in una lunga intervista a L'Eco di Bergamo: "Mi fermo per fare il casalingo e il dog sitter del mio cane Pentelho (rompiscatole, in portoghese del Brasile, ndr). Ma chissà che in futuro possa tornare a fare formazione. Ce ne sarà bisogno, visto che la tecnologia sta togliendo ai giovani il percorso che noi avevamo fatto".
Si ferma, Carlos, e lo fa per tornare in quella che da 15 anni chiama casa, a Gorle, alle porte di Bergamo. Insieme alla moglie Francesca Di Massimo, giudice di linea, sposata nel 2021. La pensione è una buona occasione per riavvolgere il nastro, partendo dall’inizio dell'avventura nel tennis, decisamente singolare. "Da bambino - racconta - entravamo di nascosto nel circolo di Sao Cateano per poter giocare: era chiuso nei fine settimana, ma io e i miei amici scavalcavamo le siepi pur di allenarci”. Con la perdita del padre, iniziò a insegnare tennis già a 15 anni per sostenere la famiglia, senza però abbandonare gli studi: si iscrisse infatti alla facoltà di Ingegneria meccanica.
La svolta nel 1984, quando partecipò come giudice di linea alle Finals di Federation Cup a San Paolo. “Non avevo mai visto un torneo professionistico dal vivo, ma mi presero perché avevano bisogno di 120 linesman. Fu il mio debutto nel grande tennis”, ricorda. Ciò che era nato come un’esperienza sporadica si trasformò presto in una scelta di vita: “Dovetti scegliere tra l’insegnamento e l’arbitraggio. Ho scelto il tennis per viaggiare e per scoprire il mondo. Non essendo ricco di famiglia, sarebbe stato l'unico modo per farlo”.
Bernardes prima della finale maschile del 2011 a Wimbledon, da lui diretta
Nel corso della sua carriera, Bernardes ha vissuto il tennis da una prospettiva privilegiata, osservando da vicino campioni di epoche diverse. Come il connazionale Guga Kuerten: "Un mito per il Brasile, un po’ come Ayrton Senna”. Tuttavia, è prudente su Joao Fonseca: “Ha un talento naturale evidente, ma la pressione da sostenere è una sfida enorme. Nulla è scontato. Il campione più grande? Ognuno va rapportato alla propria epoca, impossibile fare paragoni”.
Il trasferimento in Italia - viva l'amore - ha segnato un nuovo capitolo della sua vita. “A Gorle vivo con mia moglie Francesca e sto benissimo, anche se mi mancano il clima del Brasile e la famiglia che ho lasciato là”, racconta. La vita di un arbitro, però, è fatta di continui spostamenti: “In 40 anni di carriera, non ho mai avuto un luogo da chiamare davvero casa, almeno fino alla fine dello scorso anno”.
Tra i momenti più memorabili della carriera, ricorda la prima sfida tra Federer e Nadal, Miami 2004: “Vinse Rafa, 6-3 6-3. Non fui sorpreso, da tanto si parlava di questo giovane fenomeno. Ma all’epoca non immaginavo la portata di quella rivalità”. Mentre la partita che più lo ha emozionato è stata la finale di Wimbledon 2011 tra Djokovic e Nadal: “Perché il Centre Court ha un’energia unica”.
Il rapporto con i giocatori è cambiato nel tempo. “Una volta si usciva a cena insieme, ora ognuno vive nel proprio mondo. E non so se sia un bene, considerando quanti tennisti affrontano problemi psicologici”, riflette. E sui Fab Four – Federer, Nadal, Djokovic e Murray – aggiunge: “Non credo che vedremo mai più carriere così longeve. Anche se i migliori di oggi sono ugualmente straordinari. E Sinner ha portato il tennis a livelli di popolarità mai visti in Italia”.
L'episodio più curioso? Eccolo: "Challenger in Brasile, a Recife negli anni 90, c'è un giocatore tedesco che deve allenarsi prima delle semifinali, ma non ha uno sparring. Alla fine vado in campo io con lui, salvo poi ritrovarmelo in finale, quando gli faccio da arbitro. Il suo avversario? Non ha fatto una piega. Altri tempi".
Gli errori, inevitabili in una carriera così lunga, non lo spaventano: “Un arbitro che si assume responsabilità sbaglia più spesso - agli occhi del pubblico - di chi non interviene mai, ma di solito è esattamente il contrario”. Tuttavia, lamenta una crescente intolleranza verso l'errore, non solamente nel tennis e nello sport: “Oggi si vuole eliminare ogni errore, ma la perfezione è semplicemente innaturale. Con le macchine, stiamo perdendo il lato umano dell’arbitraggio e in generale del lavoro. Soprattutto, stiamo perdendo la capacità di far fronte all'errore”.
Le situazioni difficili non sono mancate. La più spaventosa? Durante un match di Coppa Davis del 2000 in Cile, a Santiago, quando il pubblico iniziò a lanciare di tutto in campo, imbufalito contro l'argentino Mariano Zabaleta: “Fu spaventoso, soprattutto perché con me c’era la mia famiglia. Prendevano a sedie in testa anche la polizia”. Mentre, tornando al gioco, le tensioni maggiori sono giunte nel rapporto con Rafael Nadal, che nel 2015 dichiarò apertamente - in una grave caduta di stile - di non voler essere più arbitrato da lui: “Ma sono cose che accadono piuttosto di frequente. E con Rafa ci siamo sempre rispettati. Fu il primo a scrivermi dopo l’attacco di cuore che ho avuto a Melbourne nel 2021”.
Guardando al futuro, Bernardes è critico sulla nuova Coppa Davis: “Era più emozionante al meglio dei 5 set. Perché non giocarla ogni due anni?”. E vede pure un cambiamento nel ruolo dell’arbitro: “Diventerà sempre più importante spiegare le decisioni al pubblico, ciò che accade nel football americano”.
Alla fine della sua carriera, si dedica ai ricordi e alla famiglia, con uno sguardo rivolto alla formazione delle nuove generazioni di arbitri. “Sono felice della scelta fatta 40 anni fa. Il tennis mi ha dato tutto”, conclude, ribadendo un principio: “Le stelle sono i giocatori. Noi arbitri siamo solo il contorno”.
Proprio per questo, per la sua capacità di fare un lavoro complicato senza farsi notare troppo e senza diventare protagonista, la gente lo ha apprezzato. E durante tutto il suo tour di addio, gli ha riservato una lunga standing ovation. Totalmente meritata, per uno che è stato in campo con 24 numeri 1 dei 29 che hanno fatto la storia del tennis.