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Grand Slam Cup story, tra palco e realtà

Quella di Monaco di Baviera era a tutti gli effetti una mega-esibizione, perché il torneo – organizzato dall'ITF – non assegnava punti Atp e non era riconosciuto dall'associazione che gestiva il circuito maggiore. Ma era un'esibizione di lusso, che i top player si guardavano bene dal mancare

di | 16 ottobre 2024

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Nel dicembre del 1990, in una Olympiahalle di Monaco di Baviera addobbata per le feste di Natale, cominciava l'avventura di uno dei tornei di tennis più anomali e discussi della storia della racchetta. La Grand Slam Cup riuniva i 16 giocatori che meglio si erano comportati nei quattro Major della stagione, mettendo in palio il montepremi più alto di sempre, con 2 milioni di dollari che finivano nelle mani del vincitore. Era a tutti gli effetti una mega-esibizione, perché il torneo – organizzato dall'ITF – non assegnava punti Atp e non era riconosciuto dall'associazione che gestiva il circuito maggiore. Ma era un'esibizione di lusso, che i top player si guardavano bene dal mancare.

Considerato che già allora si parlava di calendario fitto e di impegni troppo ravvicinati per i professionisti di prima fascia, non mancarono le polemiche, alimentate soprattutto da quel montepremi monstre. Che magari oggi potrebbe sembrare normale, ma che all'epoca era assolutamente straordinario. Basti pensare che il vincitore di Wimbledon quello stesso anno si era preso circa 450 mila dollari mentre quello di Flushing Meadows era arrivato a contarne 350 mila. Vincere la Grand Slam Cup, in sostanza, sotto il profilo economico equivaleva a intascare 4 o 5 Slam in una volta sola.

Va da sé che, fra i giocatori, l'evento ebbe successo. Nel 1990, prima edizione, vinse Pete Sampras, mentre l'anno dopo arrivò il successo a sorpresa di David Wheaton, ottimo attaccante che però negli Slam non era mai andato oltre le semifinali. Nel 1992 fu Michael Stich ad approfittare della rapidità dei campi di Monaco, dove fare serve&volley pagava dividendi importanti, e dove pure uno come Michael Chang – non esattamente un volleatore di razza – riuscì ad approdare per due volte all'ultimo atto. 

Ma l'edizione migliore fu quella del 1993: i favoriti erano Sampras ed Edberg, ma a stravolgere le previsioni arrivò un Petr Korda (padre di Sebastian e numero 2 Atp in seguito) che pareva giocare su di una nuvola: piegò il russo Volkov e lo spagnolo Bruguera, per poi dare vita a due dei match più straordinari della carriera, due dei confronti più belli di quell'anno.

A farne le spese, prima Pete Sampras, poi Michael Stich, battuti al termine di cinque parziali infiocchettati da un long set da cineteca: 13-11 e 11-9 rispettivamente.

Anche la formula di quell'evento era anomala: si giocava sulla distanza dei tre set per i primi due turni, poi sulla distanza dei cinque per semifinali e finale. E senza tie-break nel set decisivo, come peraltro si faceva in tre Major su quattro (salvo che agli Us Open).

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Nel frattempo il montepremi – proprio da quella quarta edizione – cominciò a indietreggiare, pur restando su livelli decisamente alti: 1 milione e 600 mila dollari. Ma l'appeal del torneo piano piano stava calando, con alcuni fattori che incidevano non poco: le polemiche attorno ai soldi, in particolare se commisurati all'impegno richiesto ai partecipanti, e ancora il periodo di fine anno in cui molti volevano godersi le vacanze, oltre che la mancata assegnazione dei punti Atp.

L'unica presenza italiana (come cambiano i tempi...) sarebbe arrivata nel 1995 grazie a Renzo Furlan: l'attuale coach di Jasmine Paolini, proprio quell'anno, raggiunse i quarti al Roland Garros, oltre che il terzo turno a New York, e tanto gli bastò per staccare il biglietto per Monaco, dove perse all'esordio da Evgeny Kafelnikov.

Nell'albo d'oro, dopo Korda, sarebbero finiti Magnus Larsson, Goran Ivanisevic, Boris Becker, di nuovo Pete Sampras. Nel 1998 il torneo cambiò pelle, cercando di diminuire l'impegno dei migliori (12 qualificati, con 4 bye all'esordio) e allo stesso aprendosi alle donne. Guardando a chi si prese i titoli (Rios e Rusedski tra gli uomini, Venus e Serena Williams in campo femminile) male non andò, ma il 1999 fu l'ultimo atto della manifestazione.

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Il fatto è che proprio sul finire del millennio, in quel dicembre del 1999, ITF e Atp trovarono un accordo per mettere la parola fine a quello che – a conti fatti – per un periodo era stato una sorta di doppione del Masters, che all'epoca si chiamava Atp Tour World Championships e che invece dal 2000 (a Lisbona) avrebbe cambiato nome in Tennis Masters Cup. Di quell'accordo resta traccia oggi in una delle regole di ammissione alle Nitto ATP Finals: il vincitore di uno Slam che non faccia parte dei primi 8 è comunque qualificato al 'Torneo dei Maestri', a patto che rimanga nei migliori 20 della Race.

È successo solo una volta (nel 2004, quando Gaudio si prese il posto di Agassi), ma è successo. E oggi della Grande Slam Cup, 25 anni dopo l'ultima edizione, non si sente più questo gran bisogno, soprattutto in un finale di stagione dove di spazi liberi non ce ne sono davvero più. Resta una certa nostalgia per quel campo senza i corridoi del doppio (a proposito di similitudini col vecchio Masters) che pochi giorni prima di Natale si accendeva di luci, colori e giocate di classe. Perché sì, c'erano tanti soldi in palio, ma il braccio sciolto di quei campioni era quello tipico delle esibizioni, dove (quasi) tutto è permesso.

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