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Il decimo re dell'Atp è Andre Agassi, numero 1 mondiale nel 1999 grazie alle vittorie in rimonta nelle finali del Roland Garros e dell'Open degli Stati Uniti. Il Kid di Las Vegas è il quinto americano dopo Connors, McEnroe, Courier e Sampras.
di Luca Marianantoni | 24 ottobre 2024
L'ultimo numero 1 degli anni 90 è Andre Agassi. E' il quinto americano e decimo in assoluto a chiudere una stagione al primo posto del ranking nell'era del computer.
Nessuno dopo Rod Laver era riuscito, anche nell'arco dell'intera vita, a firmare i quattro Slam. La terra di Parigi aveva respinto con perdite Jimmy Connors, John McEnroe, Stefan Edberg, Boris Becker e Pete Sampras, il cemento americano aveva negato il successo a Bjorn Borg, l'erba di Wimbledon era risultata amara e indigesta a Ivan Lendl e Mats Wilander.
A ricongiungersi all'australiano ci pensò Andre Agassi che per 20 anni esatti (1986-2006) ha portato il tennis verso confini inesplorati, magicamente svelati a fine carriera nella meravigliosa autobiografia "Open".
Essere e vivere da Andre Agassi è stata l'impresa più difficile compiuta dal tennista di Las Vegas. Perché con i suoi capelli ossigenati, l'orecchino, il parrucchino, i pantaloncini di jeans e le magliette fluorescenti, Andre Agassi ha sconvolto l'austero mondo del tennis quando Borg era un fresco ricordo del passato, Connors un quasi pensionato, McEnroe, Lendl e Becker i padroni del mondo. Una carriera vissuta tutta d'un fiato, all'ultimo respiro, sotto gli sguardi attenti di un pubblico che lo ha amato alla follia e accompagnato, una volta calato il sipario (US Open 2006), con la più lunga standing-ovation che la storia ricordi.
Fu papà Mike, pugile armeno di passaporto iraniano, a nutrirlo in tenerissima età a palline e racchette; a quattro anni palleggiava con disinvoltura con Connors, Borg, Nastase e Pancho Gonzales, marito di sua sorella. A 13 anni, sempre papà Mike, gli pagò 3 mesi da Nick Bollettieri che rimase folgorato: il "corri e tira" di Agassi era la sua filosofia di gioco e per trattenerlo gli offrì una borsa di studio.
I progressi furono continui e al termine del primo anno da pro era già numero 91 del mondo. Nel 1987 vinse il primo titolo Atp sul cemento di Itaparica e nel 1988 arrivò alle semifinali di Parigi (trascinò Mats Wilander al quinto) e di Flushing Meadows (battuto da Lendl). Giocava talmente aggressivo e a velocità supersoniche da rendere preistorico il tennis d'attacco da fondocampo di Jimmy Connors. Andre attaccava ogni volta che la palla rimbalzava nella sua metà campo, aveva un rovescio fenomenale, soprattutto lungolinea, e una risposta con cui trovava angoli impensabili ai comuni mortali. Era una specie di flipper impazzito, da sembrare fuori controllo, che spesso s'inceppava, andando in tilt, proprio sul più bello, come quando mancò un match point nella finale di Roma 1989 contro Alberto Mancini o quando perds da favorito le prime 3 finali Slam raggiunte: ceffoni a mani aperte beccati da Andres Gomez a Parigi 1990, da Pete Sampras all'US Open dello stesso anno e da Jim Courier al Roland Garros 1991.
Quelli erano gli anni della sistematica rinuncia all'Open d'Australia e della poca voglia di partecipare a Wimbledon dopo l'amaro debutto del 1987. Ci tornò nel 1991, per dimenticare Parigi, e raggiunse i quarti. Nessuno immagina che il Centre Court possa fare da sfondo al primo titolo Slam, quello storico del 1992. Agassi prese fiducia quando nei quarti sfiancò in cinque set il testardo Becker, ricavando poi una spinta eccezionale per battere in semifinale l'ultimo grande SuperMac. La finale con Ivanisevic ebbe un solo problema; l'erba, che esaltava il naturale gioco di Ivanisevic, super favorito dopo i 36 ace piazzati per eliminare Pete Sampras. Il croato però non era un cuor di leone e sul 4-5 del quinto set rimontò da 0-30, ma poi non chiuse la demi-volée e, sul match point, fu trafitto a rete dal passante di rovescio di Agassi che diventò il primo giocatore da fondocampo a vincere Wimbledon dai tempi di Bjorn Borg.
Il ghiaccio era rotto, ma arrivarono anche i primi infortuni al polso. All'amico del cuore Gil Reys, che gli curava la preparazione fisica, Andre affiancò un nuovo allenatore, l'ex pro Brad Gilbert che lo prese per mano, nel 1994, conducendolo a vincere l'Open degli Stati Uniti senza essere testa di serie. Nel 1995 debuttò all'Open d'Australia e fece subito centro: in tutto il torneo perse un solo set, il primo della finale contro Pete Sampras e ad aprile diventò per la prima volta numero 1 del mondo. L'estate del 1995 fu spettacolare: 26 vittorie di fila sul cemento, fino alla finale persa a New York contro Pete Sampras: un match che lo segnò, che lo mandò in depressione. L'unica luce fu la vittoria ai Giochi di Atlanta, poi ancora il buio sancito dalla fine del matrimonio lampo con Brooke Shields: il 10 novembre 1997, a soli 27 anni, era un giocatore finito, numero 141 del mondo.
Ma in queste condizioni estreme, uscì fuori l'incredibile forza di un campione irripetibile che trovò addirittura gli stimoli per migliorarsi e vincere quello che non aveva mai vinto prima. Ripartì dai tornei challenger per ricostruirsi una classifica accettabile e a fine 1998 era già nuovamente tra i top 10. Il 1999 passò alla storia come il suo anno magico: vinse il Roland Garros rimontando due set contro Andrei Medvedev, perse la finale del settimo sigillo a Wimbledon di Sampras, ma l'amore sbocciato con Steffi Graf lo spronò quel tanto da vincere anche l'Open degli Stati Uniti e chiudere l'anno al primo posto del ranking.
Arriveranno altri 3 Open d'Australia e una valanga di record (compreso il primato in classifica mondiale retto fino a 33 anni e 4 mesi) e di partite memorabili, comprese le due contro Federer all'Open degli Stati Uniti. Fino alle lacrime e alla standing ovation di 4 minuti abbondanti di quell'indimenticabile 3 settembre 2006 quando Benjamin Becker pose fine alla sua carriera.