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Verso Torino: 1970, Jack Kramer inventa il Masters

Nel 1970 Jack Kramer decide di raggruppare i più importanti tornei in un circuito denominato Grand Prix: al termine della stagione i migliori al mondo partecipano al primo Masters della storia giocato a Tokyo.

di | 01 ottobre 2023

Il tennis moderno, come lo conosciamo oggi, nasce nel 1970 da un'idea del grande Jack Kramer, talento americano e tennista sublime che a 26 anni lascia il mondo dei dilettanti dopo due titoli a Forest Hills, allora sede dei campionati degli Stati Uniti, e il successo a Wimbledon del 1947. Kramer ha una mentalità da imprenditore e non a caso è organizzatore quando ancora gioca come professionista, assoldando in un tour itinerante tutti i più grandi campioni australiani e americani degli anni 50 e 60.
Il suo progetto, reso fattibile dall'avvento del tennis Open, è quello di dar vita a un circuito, chiamato Grand Prix, che colleghi i principali tornei sparsi per il mondo, con tanto di classifica finale a punti ricavata dai piazzamenti ottenuti dai giocatori nei vari tornei. I punti vengono assegnati in funzione del turno raggiunto e anche della categoria del torneo, stabilita in base al montepremi.
A rendere vincente il progetto ci pensa un grande sponsor, la Pepsi-Cola, con la federazione internazionale che dà il benestare, e altre due geniali idee che, da tempo, frullano nella testa di Kramer: oltre al normale montepremi guadagnato a seconda del piazzamento in ogni singolo torneo, il Grand Prix prevede di distribuire una valanga di dollari ai primi 20 della classifica finale e di offrire la possibilità, ai migliori, di partecipare al Masters, un torneo di fine anno con il compito di laureare il "Maestro" della stagione e di fungere anche da passerella finale dei maggiori protagonisti.
Queste due intuizioni di Kramer hanno anche lo scopo di scoraggiare i giocatori a iscriversi ai tornei di altri circuiti (in primis a quello parallelo, che sta per nascere, chiamato Wct, del petroliere texano Lamar Hunt) o a prove indipendenti, e a convincere le federazioni nazionali (proprietarie dei tornei) di far parte di una grande famiglia che in pochi anni cambia la storia del tennis.
Alla prima edizione del Grand Prix aderiscono venti tornei, divisi in tre categorie: la categoria "A" comprende il Roland Garros, Wimbledon e l'Open degli Stati Uniti, poi sei tornei di "gruppo 1" e undici di "gruppo 2". A conferma della bontà dell'iniziativa e delle solide basi della valutazione, a più di cinquant'anni di distanza, nove di questi tornei fanno ancora parte dell'Atp Tour: i tre Slam, Bastad, Washington, Cincinnati, Buenos Aires, l'indoor di Parigi e Stoccolma.
Nella prima bozza del calendario ci sono anche gli Internazionali d'Italia, ma quando l'Itf viene a sapere che la federazione italiana ha già firmato per l'anno seguente (il 1971) un accordo con il Wct, il torneo viene immediatamente escluso.

Il primo torneo del Grand Prix si disputa a Bournemouth, in Inghilterra, che due anni prima è anche il primo torneo Open della storia. Ma non è questa l'unica analogia: a vincere nel 1970 è il britannico Mark Cox che nel 1968 è il primo dilettante a battere un professionista, quel Pancho Gonzales classe 1928 tornato a cimentarsi nei tornei tradizionali dopo diciotto anni di esilio.
La leadership di Cox dura fino al torneo successivo, quando cede il posto a Jan Kodes, campione al Roland Garros. Ma il mattatore del nuovo circuito è Cliff Richey, un americano di 23 anni che fa della regolarità il suo punto di forza. Richey è primo a Washington e Indianapolis, secondo a Cincinnati, Berkley e Wembley, e chiude in testa alla classifica finale con 60 punti, cinque in più di Arthur Ashe e sette in più di Ken Rosewall.

Richey incassa il primo premio di 25.000 dollari, sui 150.000 complessivi messi in palio della Pepsi-Cola; una cifra imponente se si considera che il montepremi maschile dell'Open degli Stati Uniti di quell'anno è di 121.800 dollari di cui 20.000 al vincitore.
Il circuito, iniziato ad aprile, si chiude a fine novembre a Stoccolma (vittoria di Smith), prima del gran finale di Tokyo, sede del primo Masters a cui non prende parte l'ammalato Cliff Richey. Alla kermesse finale, pensata senza eliminazione diretta ma con un girone all'italiana, si qualificano sei giocatori: Arthur Ashe, Ken Rosewall, Rod Laver, Stan Smith, Zeljko Franulovic e Jan Kodes che sostituisce l'impossibilitato John Newcombe, tornato in lizza per l'assenza di Richey.

A Tokyo (45.500 dollari di montepremi) vince Stan Smith (quinto classificato nella graduatoria a punti del Grand Prix) che chiude il Masters con quattro vittorie e una sconfitta, come Rod Laver, ma prevale sull'australiano per il successo nello scontro diretto (4-6 6-3 6-4 lo score) che inaugura la manifestazione.
Il torneo però non ha particolare risalto; pare una ricca esibizione, accentuata anche dal fatto che il tie-break (introdotto per la prima volta, pochi mesi prima, nel torneo di Philadelphia) viene giocato sul 5 pari invece che sul 6 pari come negli altri tornei.
Ma non è l'unica pecca. L'idea del circuito ideato da Kramer è buona, ma il meccanismo che lo regola, premia eccessivamente la quantità dei tornei giocati rispetto alla qualità. Richey è un buon giocatore, ma niente di più e non vale un posto tra i primi cinque del mondo.
I dominatori veri della stagione sono ancora una volta gli australiani. John Newcombe vince Wimbledon su Ken Rosewall. Rosewall a sua volta trionfa all'Open degli Stati Uniti su Tony Roche, a 14 anni dal suo primo successo. Rod Laver, che difende il Grande Slam completato l'anno prima, fa incetta di tornei (12 titoli e 19 finali), ma fallisce clamorosamente gli appuntamenti più importanti: rinuncia al Roland Garros per non aver trovato l'accordo economico con i dirigenti francesi, subisce la prima sconfitta a Wimbledon dal 1961 (dopo 31 vittorie di fila) contro Roger Taylor che lo trafigge negli ottavi e perde da Dennis Ralston agli ottavi di Forest Hills.
Quando, dalla penna di Lance Tingay, il più famoso giornalista, scrittore e storico britannico di tennis che redige la classifica nell'era pre-computer, escono i top 10 del 1970, ai primi quattro posti ci sono quattro australiani: Newcombe, Rosewall, Laver e Roche. Poi l'olandese Okker, il rumeno Nastase e solo settimo l'americano Richey. Ma intanto la storia è iniziata, merito del visionario Jack Kramer che cambia volto e immagine al tennis, rivoluzionandolo su tutti i piani possibili e trasformandolo da semplice sport in uno spettacolo di enorme successo. Grazie a lui il tennis inizia ad attrarre dollari, sponsorizzazioni milionarie, pubblico e industrie; grazie a lui il tennis abbraccia la matematica e la statistica per sviscerare ogni aspetto del gioco, ormai pronto a esplodere a livello planetario.

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