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Nel 1970 Jack Kramer decide di raggruppare i più importanti tornei in un circuito denominato Grand Prix: al termine della stagione i migliori al mondo partecipano al primo Masters della storia giocato a Tokyo.
di Luca Marianantoni | 01 ottobre 2023
Il primo torneo del Grand Prix si disputa a Bournemouth, in Inghilterra, che due anni prima è anche il primo torneo Open della storia. Ma non è questa l'unica analogia: a vincere nel 1970 è il britannico Mark Cox che nel 1968 è il primo dilettante a battere un professionista, quel Pancho Gonzales classe 1928 tornato a cimentarsi nei tornei tradizionali dopo diciotto anni di esilio.
La leadership di Cox dura fino al torneo successivo, quando cede il posto a Jan Kodes, campione al Roland Garros. Ma il mattatore del nuovo circuito è Cliff Richey, un americano di 23 anni che fa della regolarità il suo punto di forza. Richey è primo a Washington e Indianapolis, secondo a Cincinnati, Berkley e Wembley, e chiude in testa alla classifica finale con 60 punti, cinque in più di Arthur Ashe e sette in più di Ken Rosewall.
Richey incassa il primo premio di 25.000 dollari, sui 150.000 complessivi messi in palio della Pepsi-Cola; una cifra imponente se si considera che il montepremi maschile dell'Open degli Stati Uniti di quell'anno è di 121.800 dollari di cui 20.000 al vincitore.
Il circuito, iniziato ad aprile, si chiude a fine novembre a Stoccolma (vittoria di Smith), prima del gran finale di Tokyo, sede del primo Masters a cui non prende parte l'ammalato Cliff Richey. Alla kermesse finale, pensata senza eliminazione diretta ma con un girone all'italiana, si qualificano sei giocatori: Arthur Ashe, Ken Rosewall, Rod Laver, Stan Smith, Zeljko Franulovic e Jan Kodes che sostituisce l'impossibilitato John Newcombe, tornato in lizza per l'assenza di Richey.
A Tokyo (45.500 dollari di montepremi) vince Stan Smith (quinto classificato nella graduatoria a punti del Grand Prix) che chiude il Masters con quattro vittorie e una sconfitta, come Rod Laver, ma prevale sull'australiano per il successo nello scontro diretto (4-6 6-3 6-4 lo score) che inaugura la manifestazione.
Il torneo però non ha particolare risalto; pare una ricca esibizione, accentuata anche dal fatto che il tie-break (introdotto per la prima volta, pochi mesi prima, nel torneo di Philadelphia) viene giocato sul 5 pari invece che sul 6 pari come negli altri tornei.
Ma non è l'unica pecca. L'idea del circuito ideato da Kramer è buona, ma il meccanismo che lo regola, premia eccessivamente la quantità dei tornei giocati rispetto alla qualità. Richey è un buon giocatore, ma niente di più e non vale un posto tra i primi cinque del mondo.
I dominatori veri della stagione sono ancora una volta gli australiani. John Newcombe vince Wimbledon su Ken Rosewall. Rosewall a sua volta trionfa all'Open degli Stati Uniti su Tony Roche, a 14 anni dal suo primo successo. Rod Laver, che difende il Grande Slam completato l'anno prima, fa incetta di tornei (12 titoli e 19 finali), ma fallisce clamorosamente gli appuntamenti più importanti: rinuncia al Roland Garros per non aver trovato l'accordo economico con i dirigenti francesi, subisce la prima sconfitta a Wimbledon dal 1961 (dopo 31 vittorie di fila) contro Roger Taylor che lo trafigge negli ottavi e perde da Dennis Ralston agli ottavi di Forest Hills.
Quando, dalla penna di Lance Tingay, il più famoso giornalista, scrittore e storico britannico di tennis che redige la classifica nell'era pre-computer, escono i top 10 del 1970, ai primi quattro posti ci sono quattro australiani: Newcombe, Rosewall, Laver e Roche. Poi l'olandese Okker, il rumeno Nastase e solo settimo l'americano Richey. Ma intanto la storia è iniziata, merito del visionario Jack Kramer che cambia volto e immagine al tennis, rivoluzionandolo su tutti i piani possibili e trasformandolo da semplice sport in uno spettacolo di enorme successo. Grazie a lui il tennis inizia ad attrarre dollari, sponsorizzazioni milionarie, pubblico e industrie; grazie a lui il tennis abbraccia la matematica e la statistica per sviscerare ogni aspetto del gioco, ormai pronto a esplodere a livello planetario.
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