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"Quando vedo i bambini soffrire, mi sento vulnerabile", ha raccontato il serbo a La Nacion, lo scorso ottobre. "Sono gli esseri più puri del mondo, io ho vissuto la guerra, e quando vedo ancora oggi bambini soffrire per essa, fatico a capire"
di Samuele Diodato | 16 marzo 2025
Le mani tremanti sulla terra del Philippe Chatrier, il pianto a dirotto dopo la vittoria contro Carlos Alcaraz condensano in pochi istanti la storia di chi, per i propri sogni, ha dato tutto e anche di più. E l’ha fatto senza mai scendere a compromessi, dal punto di vista delle proprie convinzioni e del proprio modo di intendere la vita. D’altronde, Novak Djokovic è così, prendere o lasciare.
Oggi la gioia olimpica è lontana. Il sogno resta la conquista del 100° titolo ATP, che inseguirà a Miami, reduce da una pesante sconfitta al secondo turno del BNP Paribas Open di Indian Wells. I dubbi sul suo attuale stato di forma, tuttavia, non cambiano la sua persona. Tanto impegnata a schierarsi nelle sue battaglie, quanto a farsi valere in campo – tanto da portarlo a vincere 24 Slam, primatista assoluto – e fuori, per aiutare colleghi e persone in difficoltà. L’ultimo esempio è il messaggio al tennista argentino Federico Agustin Gomez, che ha recentemente confessato di vivere un momento difficile della propria vita, convivendo anche con pensieri suicidi: “Forza, amico! C’è sempre una luce in fondo al tunnel”, ha commentato il trentasettenne di Belgrado.
Le cui stesse origini hanno forgiato il suo carattere e fatto maturare in lui la ferma volontà di allungare la propria mano verso l’altro, soprattutto in contesti e/o momenti difficili. Un punto sul quale ha aperto il proprio cuore, lo scorso ottobre, in un’intervista a La Nacion. “La Serbia è una nazione molto antica, ma nella storia recente, negli ultimi cento anni, durante la prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale e soprattutto ora, negli ultimi 30 anni, abbiamo sofferto molto, non solo noi, ma anche la Croazia e la Bosnia”, ha detto.
“Della Jugoslavia, il paese che ora si è disintegrato, ricordo ben poco, perché sono nato nel 1987. Ricordo quando c’era l’embargo nella seconda metà degli anni Novanta, o quando alle 5 del mattino andavo con mio nonno a fare la fila per prendere abbastanza pane da sfamare tutta la famiglia”. Oltre ai genitori e ai fratelli, “Nole” viveva con zii, nonni e cugini in un piccolo appartamento.
“Queste sono le cose che sono diventate parte integrante del mio carattere, hanno rafforzato la mia volontà di avere successo, di fare qualcosa nella mia vita, e ho avuto un sostegno incredibile dai miei genitori, che hanno investito ogni euro che avevano nello sport costosissimo che avevo scelto”. È questa, la radice di tutto: la volontà, la missione di restituire qualcosa al tennis, che gli ha “salvato la vita”, ma mostrare un’umanità di fronte al quale è difficile restare indifferenti.
“Ciò che mi rende più fragile è vedere i bambini soffrire, che si tratti dei miei figli (il piccolo Stefan e la piccola Tara, ndr) o degli altri bambini”, ha confessato. “Sono gli esseri più puri del pianeta e meritano il meglio, meritano un futuro. Ho vissuto la guerra, la mia città è stata bombardata giorno e notte per due mesi e mezzo. Ho visto gente morta. E ora che vedo le guerre in altre parti del mondo, non capisco. Penso di sapere perché succede, ma mi rattrista, perché se non lasciamo un mondo migliore ai bambini della prossima generazione, significa che non abbiamo fatto le cose per bene”.
Djokovic insieme ai figli Tara e Stefan (Getty Images)
“L'ingiustizia globale mi fa sentire molto vulnerabile, soprattutto nei confronti dei bambini o della natura. Anche la sofferenza che le persone sperimentano quotidianamente a causa di problemi di salute. Io Immagino un mondo più sano mentalmente e fisicamente, connesso e rispettoso della natura. Ci sono città dove continuano a costruire edifici e si dimenticano dell'ecologia, dell'importanza di ogni albero. Ogni albero ci fornisce ossigeno, vita, energia, cibo per la nostra anima, sole”.
Questione di eredità e di esempi positivi. Per certe cose, in fondo, muoversi per primi è ancor meglio che aspettare che a farlo siano altri. Un concetto che accomuna Djokovic ad Andre Agassi, con cui il serbo non condivide solo l'impegno filantropico, ma anche - più concretamente - il record di sei titoli al Miami Open, dove tornerà a giocare per la prima volta dal 2019.
“Vorrei che la mia eredità principale fosse quella di ispirare i giovani a condurre una vita più sana attraverso attività, sport, e con la consapevolezza di ciò che fanno e, ovviamente, se posso, incoraggiandoli a prendere una racchetta e giocare a tennis".
"Come tutti, commetto degli errori e cerco di esserne consapevole, ma alla fine sono un essere umano che cerca di essere una brava persona, qualcuno che sia ricordato come un buon amico, come un atleta che non solo ha ottenuto grandi risultati, ma ha anche usato la sua posizione per aiutare chi era nel bisogno, soprattutto nei paesi ai quali mi sento emotivamente legato”.
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