Tensione e gioia
Ha espresso il meglio del suo tennis quando andava all'attacco. Su qualunque superficie, cercava il colpo profondo per prendere la rete e giocava una prima volée angolata, precisa e veloce, quasi sempre risolutiva. Nonostante un fisico imponente, si muoveva con rilassata agilità, trasmetteva energia ed eleganza insieme. In finale, a quegli Us Open, sfida Greg Rusedski.
Ascolta un disco di Ben Harper, poi entra in campo nello stadio più grande del mondo, l'Arthur Ashe Stadium, inaugurato proprio in quell'edizione. “Mi sentivo un po' nervoso - ha ammesso - perché era la mia sesta finale dell'anno, avevo perso tutte le precedenti ma con Greg vincevo spesso. Ero favorito, e non ci ero abituato. Abbiamo giocato molto tesi tutti e due”. Rafter poggia sui suoi punti forti contro un avversario dagli schemi offensivi ma prevedibili. Si gioca sul campo in DecoTurf dipinto tutto di verde. Sul match point, racconta, “l'adrenalina inizia a scorrere veloce. L'obiettivo per cui hai lavorato tutta la vita è lì, a portata di mano. In mente, il punto l'avevo giocato già. Ed è andato esattamente come avevo immaginato”.
Scende a rete, chiude con la volée di dritto e vince 6-3 6-2 4-6 7-5: è il primo campione Slam australiano dal trionfo di Pat Cash che ha scalato il Royal Box dopo aver battuto Lendl a Wimbledon dieci anni prima. Rusedski, che ha la gola infiammata, parla con voce arrochita alla cerimonia di premiazione, adombrata dal ricordo vivo del funerale per la principessa Diana di 24 ore prima. Rafter, comunque, festeggia con il fratello Geoff, il suo primo coach.