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Campioni internazionali

Arthur Rinderknech, l'attaccante gentiluomo

Il 25enne di Parigi, che ha vinto a Istanbul il primo Challenger del 2021, è una ex promessa del calcio che viene dai college americani e che negli States vorrebbe tornare per insegnare. Ma solo al termine di una carriera che proprio adesso comincia a diventare interessante

di | 25 gennaio 2021

Rinderknech chi? Ecco il ritratto del giocatore francese che ieri a Lione ha battuto Jannik Sinner, un tennista che si era messo in luce a inizio 2021 vincendo il suo primo ATP Challenger e che Super Tennis aveva messo in evidenza

Attaccare, attaccare, attaccare. Arthur Rinderknech, parigino di 25 anni, ha un suo verbo preferito quando si presenta sul campo da tennis. Del resto dall'alto del suo metro e 96, sostenuto da un servizio robusto, sarebbe sbagliato limitarsi ad aspettare ciò che fa l'avversario. Lui, Arthur, di rimessa non può proprio giocare, perché i colpi da fondo sono abbastanza leggeri e perché il meglio di sé lo dà quando mette il naso sulla rete e con la sua apertura alare importante mette in soggezioni i rivali in vista del passante.

Con questo mantra, 'attaccare', il francese ha vinto a Istanbul il primo Challenger del 2021, battendo in finale il connazionale Bonzi dopo tre set durissimi. Un inizio convincente dopo che già nel 2020 Arthur aveva incamerato altri due titoli nella categoria, a Calgary e a Rennes, ovviamente sempre sul duro. I top 100 ormai sono a un passo, ma com'è che sentiamo parlare solo da un paio di stagioni di questo ragazzo dalle qualità importanti e dal braccio veloce, mai contratto nemmeno al cospetto di una finale?

La risposta sta nella scelta fatta dopo la maggiore età, la decisione presa in accordo coi genitori per un trasferimento in un college degli States, precisamente in Texas. Lì, sotto le cure dell'ex pro Steve Denton, Rinderknech ha messo le basi per diventare un giocatore vero, costruendosi al contempo un piano B che in fondo oggi gli consente già di pensare al futuro: “Mi vedo molto bene a insegnare in un campus americano, quando avrò finito la carriera – dice – perché il tennis in quel mondo è visto come uno sport di squadra, dove ci sono due o tre coach ogni dieci giocatori e dove bisogna andare a valutare la tecnica, il carattere e la voglia di emergere di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo. È una sfida professionale straordinaria, ma spero che cominci il più tardi possibile”.

Arthur parla di squadra perché il suo passato nello sport racconta soprattutto di pallone. Ha iniziato col tennis prestissimo, a 4 anni, perché papà e mamma gestivano un club, ma poi a catturare la sua attenzione è arrivato il calcio.

Con il club di Vincennes, alle porte di Parigi, ha vinto per qualche stagione il campionato dell'Île-de-France, poi a 13 anni ha scelto la racchetta, con il sogno di diventare professionista che si faceva passo dopo passo più concreto che mai.

Finiti gli studi in Francia, la madre, che conosceva un ragazzo in grado di aiutare i giovani ad andare negli Usa per studiare e fare sport, lo indirizzò verso il mondo dei college, e lui non ci pensò troppo. 

“Dopo un primo periodo difficile, visto che il mio curriculum non bastava per entrare, sono finalmente riuscito ad approdare all'Università e lì ho visto e imparato tante cose nuove, che mi hanno senza dubbio cambiato la vita. Sotto il profilo tennistico, avere un ex campione come Steve Denton come coach, mi ha aiutato a fare progressi: aveva l'esperienza per seguirmi verso l'alto livello.

Ma non vorrei raccontare che sono tutte rose e fiori: in realtà, negli States, se non hai un buon livello nello studio non giochi nemmeno a tennis, almeno non in squadra. Io negli Usa ci sono rimasto 4 anni. Poi sono rientrato in Europa, e mi sono posto delle domande importanti a partire da settembre 2019. A dicembre ho deciso di viaggiare con un nuovo coach, Sebastien Villette, già al seguito dell'altro pro Manuel Guinard: in modo naturale siamo entrati in contatto e altrettanto naturalmente abbiamo cominciato a lavorare insieme, con ottimi risultati”.

Il college americano è stato fondamentale per la mia crescita. E a fine carriera spero di poterci andare di nuovo per insegnare ai ragazzi. Nelle Università degli States il tennis è uno sport di squadra e motivare i ragazzi è una sfida molto stimolante.

Il 2020 anche per lui è stato, ovviamente, un anno strano, che tuttavia gli ha portato in dote due tornei Challenger. Fra alti e bassi, un guaio muscolare superato e allenamenti intensi anche durante il lockdown, l'obiettivo è sempre stato lo stesso: “Vincere il più possibile, vincere ogni torneo a cui ci si presenta. Sì, capisco che può essere presuntuoso, ma mi dico di giocare match dopo match, di restare concentrato su ogni quindici. Quando prendi fiducia puoi raggiungere traguardi insperati”. 

Stare lontano dal campo è stato difficile. “Ma l'ho accettato di buon grado, siamo comunque dei privilegiati perché ci sono persone più coraggiose dei tennisti che fanno cose più importanti, in tempi di pandemia. Però l'appetito vien mangiando, e se ti alleni tanto senza sapere quando potrai rientrare le motivazioni calano. Poi l'eccitazione torna, adesso lavoro per provare a essere più competitivo possibile”.

Tanti sacrifici insomma, ma la bella vita è lontana. "Quando vinci un doppio vinci mille euro, che spesso non bastano per pagare il volo di ritorno. L'obiettivo? Ottimizzare tutto: servo bene ma posso fare meglio, gioco tanto il doppio ma a rete ho dei margini di crescita. Attaccare attaccare attaccare è il mio mantra. Spero che il 2021 mi consenta di farlo senza interruzioni".

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