-
Campioni internazionali

L’inno alla fantasia del brutto anatroccolo Medvedev

Palleggi melliflui miste a fiondate violente, servizio micidiale e anche discese a rete: il nuovo "Maestro" è un diabolico campione

di | 23 novembre 2020

Daniil Medvedev trionfa alle Nitto ATP Finals 2020 (foto Getty Images)

Daniil Medvedev trionfa alle Nitto ATP Finals 2020 (foto Getty Images)

Segni particolari? Bruttino. Daniil Medvedev, il sesto campione diverso del Masters (pardòn, delle ATP Finals) che dal prossim’anno, dopo dodici stagioni alla O2 Arena di Londra, emigrano per almeno cinque edizioni al PalaAlpitour di Torino, è già nella storia come il primo che batte uno dietro l’altro i primi tre del mondo, Djokovic, Nadal e Thiem.

Ma, all’aspetto è anche uno spennacchiato alto e sgraziato, tutto contorcimenti a ogni colpo, piegando le lunghissime e magrissime braccia che sembrano quelle di Olivia, la moglie di Braccio di Ferro ma gli consentono di arrivare ovunque, accoppiate a alle gambe, altrettanto lunghe e magre, da fenicottero. Non fidatevi del brutto anatroccolo del tennis: sembra smunto e senza vita, sembra debba continuamente spezzarsi come un giunco al vento, sembra. In realtà, il primo russo a mettersi la corona di Maestro fra i migliori del mondo di fine stagione dopo Nikolay Davydenko nel 2009, è un cigno mascherato: da fondo, tesse la sua tela spedendo pallottole, vuoi lente, melliflue e profonde, da incantatore di serpenti, vuoi violente e velocissime, spesso in contropiede, soprattutto col micidiale rovescio a due mani, ma anche di dritto.

Che tira sovente, in modo innaturale, con uno stile fuori da qualsiasi manuale, facendo un estremo scarto all’indietro a trovare la sua personalissima spinta extra. Ha un servizio velocissimo e cruento, specialmente al centro, e ha aggiunto tantissime discese a rete in più, rispetto all’anno scorso, quando pure esploso con quattro successi in nove finali, compresa quella degli Us Open con la rimonta da due set a zero sotto contro Nadal.

Daniil Medvedev durante la cerimonia di premiazione (foto Getty Images)

Spennacchiotto è un finto lento, è un finto debole ed è un finto freddo. E’ come un vulcano coperto dalla neve, in realtà, dentro, è tutto uno sfavillio di lapilli pronti ad esplodere. Lo ha già dimostrato in passato con un paio di sceneggiate che sembravamo dovergli precludere le vie della gloria, quando, a Savannah, mentre perdeva contro Donald Young, nero, disse all’arbitro, nero: “So che sei amica di lui”. Quando, a Wimbledon, a fine match, prese dei soldi dalla borsa e li sparpagliò, in gesto di spregio, sotto la sedia del direttore di gara.

E anche adesso, ha gesti di stizza che frena a fatica, contro se stesso, un net o una riga e anche qualche raccattapalle. Alla vigilia della finale delle ATP Finals contro Thiem, più anziano di tre anni, ha raccontato sorridendo: “Ricordo bene la prima volta che ci ho giocato contro, a Umago, eravamo juniores, io avevo 15 anni, lui aveva appena giocato la finale del Roland Garros e mi distrusse, mi battè per 6-2 6-0, poi mi sussurrò: 'Forse avrai un grande futuro, ma dovrai ricordarti di rimanere calmo'".

Macché, da professionista, nell’ultimo incrocio con Thiem, nella semifinale persa agli US Open, s’è arrabbiato con il giudice di sedia non gli ha concesso un challenge che lui aveva chiamato in ritardo, ha superato clamorosamente la rete per controllare - sul cemento - il segno del servizio contestato e, da regolamento, s’è beccato una ammonizione. Furioso, ha polemizzato col supervisor: “Mi spieghi che cosa ho fatto per meritare il warning? Ah, scusate: ho ucciso qualcuno, giusto? Le mie scuse più sincere, è stato davvero brutto questo mio gesto di attraversare la rete”.

Sarcastico, irridente, antipatico, autolesionista. E anche pericolosamente provocatorio com’era stato agli Us Open dell’anno scorso quando aveva continuato a ringraziare il pubblico che l’insultava: “Grazie al vostro tifo contrario ho trovato la forza per vincere tutte queste partite. Grazie”. Mettendo a nudo un a personalità fortissima, da sicuro campione. 

Chissà che ne pensano Djokovic e Nadal che, a Londra, hanno captato la possibilità di rompere im mille pezzi il moscovita, ma proprio non sono venuti a capo del puzzle.

Perché il “perticone” di 1.98 fa e disfa con una facilità ancor più impressionante della letalità dei colpi, nel cercare il “timing” tutto suo nell’impatto con la palla prende rischi estremi, spesso anche inutili, spessissimo eccessivi, cercando soluzioni ed angolazioni insolite e sparando missili a un centimetro dal net quando invece potrebbe giocare traiettorie un po’ di alte e controllate.

Tutto questo accendersi e spegnersi, innescarsi e disinnescarsi in quei magici meandri della sua mente di persona molto intelligente che deve faticare moltissimo a disciplinarsi alla ricerca solo e soltanto della pallina gialla, però, disorienta l’avversario, lo costringe a un lavorìo straordinario sia fisico che mentale.

Finendo per stroncarlo, com’è accaduto a tutti e tre i primi del mondo in questa meravigliosa settimana di partite di Londra che hanno chiuso al meglio un’annata altrimenti da dimenticare per via del coronavirus.

Un anno fa, sulla stessa scena, Daniil, aveva buttato via la vittoria contro Nadal facendosi recuperare clamorosamente da 1-5 al terzo set, fino a dover incassare un indimenticabile 6-7 6-3 7-6. Una sconfitta che il russo accettò con una faccia disgustata e l’espressione di chi stesse per buttarsi nel Tamigi gelido come stremo segnale di autodistruzione.

Fissava sgomento soprattutto uno del suo clan in tribuna, Fabrice Sbarro, l’uomo dell’1%, lo specialista dei numeri che Gilles Cervara, il coach francese di Medvedev dal 2014, ha aggregato al gruppo per perfezionare il gioco del prototipo di fantasia che oggi fa impazzire il tennis di forza moderno. A cominciare dal servizio che è diventato un’arma paralizzante per continuare con le discese a rete. La soluzione che, nella finale contro Thiem, ha utilizzato 48 volte, ottenendo un’impressionante 38/79 di successo, sfoderando ben 16 serve & volley, traducendone 13 in vincenti. 

Morale: dopo una stagione in ombra, piena di teoria, a Parigi Bercy, Medvedev ha messo finalmente in pratica gli ultimi insegnamenti e ha rimontato in finale Alexander Zverev col 5-7 6-4 6-1 che gli ha fatto alzare il primo trofeo della stagione.

“L’anno scorso, dopo quella volata nei tornei sul cemento e indoor, sono arrivato a Parigi esausto, ho perso al primo turno e insieme ho perso anche fiducia, come si è visto a Londra, dove non ho vinto una sola partita, contro Tsitsipas, Nadal e Zverev”. E le energie, soprattutto nervose sono essenziali, per tener vivo il giro da fondocampo, come s’è visto quest’anno sulla passerella coi primi 8 della stagione, dov’ha messo in fila Zverev, Djokovic e Schwartzman in due set, e ha rimontata in tre Nadal e Thiem dopo aver perso il primo.   

Gli ultimi 4 vincitori delle Atp Finals (Dimitrov, Zverev, Tsitsipas, Medvedev) non hanno ancora vinto uno Slam. E, nella storia di questa gara sono 7 i campioni che non hanno ottenuto Majors, con anche Corretja, Nalbandian e Davydenko.

Ma le ultime dimostrazioni di Medvedev, la sua eccitante unicità, la capacità di tirar fuori finalmente la fantasia fra i rappresentanti della “new generation”, il 7-0 che Daniil può sbandierare in questo novembre 2020 nei testa a testa contro i “top ten”, da contrapporre allo 0-5 che aveva dal novembre dell’anno scorso fino all’ottobre scorso, più la sua capacità di venir fuori dai guai, la finale degli Us Open dell’anno scorso, la personalità che sfodera contro i favolosi Fab Four, garantiscono che per il formidabile russo sia solo una questione di tempo prima di incoronarsi anche campione Slam.

Del resto, lui, curiosamente, non festeggia le vittorie: “E’ una cosa mia”, taglia corto. E’ chiaro che pensa ad altri trionfi. I massimi.

Loading...

Altri articoli che potrebbero piacerti