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Campioni internazionali

Djokovic, il metro-campione per i n.1 del futuro. A partire da Sinner

Oltre ad essere il recordman di settimane in testa alla classifica e all’aver raggiunto Nadal e superato Federer in termini di Slam vinti, il serbo, piaccia o meno, è il vero punto di riferimento sul piano tecnico, fisico e mentale per chi aspira a raccogliere l’eredità dei Fab Four

di | 03 febbraio 2023

Jannik Sinner è alto un metro e 88 come Novak Djokovic. Il suo peso forma è 76 kg, uno in meno rispetto al  n.1 del mondo (Foto Getty Images)

Jannik Sinner è alto un metro e 88 come Novak Djokovic. Il suo peso forma è 76 kg, uno in meno rispetto ai 77 kg del n.1 del mondo (Foto Getty Images)

Novak Djokovic, si avvia a battere tutti i record. E’ già il n.1 del mondo più numero uno di tutti, come settimane in testa alla classifica, come numero di annate chiuse sul gradino più alto. Ha agganciato il record di Slam vinti, 22, di Rafael Nadal e sembra decisamente più attrezzato dello spagnolo, sul pieno tecnico e dell’integrità fisica, per spostare l’asticella più in alto. Ovviamente si è aperta una nuova fase dell’eterno dibattito su chi sia il più forte di sempre, il GOAT, the Greatest Of All Time, con la sua candidatura sempre più forte.

C’è un aspetto concreto però che merita di essere sottolineato della strepitosa qualità di Novak Djokovic atleta, giocatore, colpitore di palline, stratega e inseguitore di primati: è senz’altro il metro-campione. E’ il tennista che si può (si deve?) prendere come riferimento se si aspira a diventare suoi successori, cioè i prossimi n.1 del mondo. Non Nadal, non Federer, troppo unici nel loro modo di esprimersi in campo. Né altri. Djokovic è assolutamente straordinario ma potenzialmente riproducibile. O quantomeno imitabile. Offre tutti i punti di riferimento che servono per provare a diventare i primi della classe seguendo le sue orme. 

UN ANNO COL GIOVANE NOLE

Questa considerazione fu alla base delle scelte di un coach di fama mondiale come Riccardo Piatti, proprio nel periodo in cui decise di rischiare e aprire una propria accademia di tennis. Il tecnico comasco, dopo una lunga serie di esperienze, si era convinto di avere capito quali erano le caratteristiche che doveva avere un tennista per poter aspirare al primato assoluto.

Prima aveva allenato un gruppo di giovani italiani (Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Federico Mordegan e Cristian Brandi), presi quando erano under 16 e accompagnati fino all’espressione delle loro potenzialità nel professionismo: il top lo raggiunse Renzo Furlan, che raggiunse i quarti di finale al Roland Garros nel 1995 e il n.19 del mondo nel 1996. Poi aveva incontrato un 18enne croato di talento, “emigrato” a Torino nel periodo della guerra dei Balcani, un tipo tosto, determinato, con un gran servizio e un gran rovescio: Ivan Ljubicic. Lo aveva guidato per tutta la lunga carriera portandolo fino al n.3 del mondo, in un’epoca in cui i numeri 1 e 2 si chiamavano Roger Federer e Rafa Nadal. Lungo questo percorso, durante il quale aveva avuto modo di confrontarsi con la grandezza dei due fuoriclasse che dominavano il circuito, aveva seguito (in coabitazione con Ljubicic) per un anno proprio l’allora diciottenne Novak Djokovic, serbo, anche lui passato attraverso guerra balcanica, figlio di un maestro di sci, che nutriva grandi ambizioni.

Piatti ne colse l’eccellenza ma quando il giocatore e la sua famiglia gli chiesero di essere seguiti a tempo pieno e in esclusiva, il tecnico scelse la continuità e la lealtà con Ljubicic, il giocatore “normale” che aveva cresciuto e con il quale, faticosamente, aveva raggiunto grandi traguardi. Lasciò così che il giocatore “straordinario” trovasse nell’ex pro slovacco Marjan Vajda l’allenatore che l’avrebbe portato ai grandi trionfi e a diventare uno dei Fab Four prima. Un dominatore assoluto poi.

Novak Djokovic nel 2006 (Foto Getty Images)

PROGETTARE UN DJOKOVIC DEL FUTURO

L’esperienza con Djokovic e l’osservazione della sua successiva evoluzione furono però preziosi per Piatti, che dopo Ljubicic seguì altri top player: il canadese Milos Raonic, il francese Richard Gasquet, Simone Bolelli, il croato Borna Coric e per un periodo Maria Sharapova. Osservando dall’esterno l’ascesa di Djokovic e la sua capacità di battere ripetutamente sia Nadal che Federer, conoscendo molto bene le caratteristiche del serbo, si convinse di sapere come progettare un Djokovic del futuro se avesse trovato il materiale umano adatto. Ritenne di aver trovato l’elemento con le caratteristiche giuste in Jannik Sinner. Scommise sulla propria capacità di guidarlo a diventare il nuovo n.1.

Jannik, da giovanissimo sciatore di alto livello, aveva straordinarie capacità coordinative, paragonabili a quelle di Djokovic. Veniva da una famiglia con i valori giusti, aveva fame di diventare il n.1, proprio come il piccolo Nole. Si trattava di aiutarlo a costruirsi un bagaglio tecnico completo, di mettergli a disposizione un preparatore fisico in grado di forgiarlo per affrontare le grandi prove del circuito e di aiutarlo a maturare una mentalità “alla Djokovic”, capace cioè di mettere tutte le sue risorse a disposizione della performance agonistica. Singolare coincidenza: Jannik Sinner è, tra i top player, l’atleta con la struttura più simile a Djokovic: sono altri entrambi un metro e 88 e il loro peso forma differisce solo di un chilo: kg 76 per Jannik, 77 per Nole.

INTERPRETARE NON CLONARE

Intendiamoci: prendere Djokovic come riferimento non vuol dire cercare di clonarlo ma reinterpretarlo in funzione delle proprie caratteristiche. E il tennis di Sinner è ben diverso da quello di Djokovic, più aggressivo, più alla ricerca immediata del punto, specie se confrontiamo il gioco attuale dell’altoatesino con quello del giovane Novak.

Djokovic però è un metro-campione per tanti aspetti del gioco (e non solo quello di Sinner): il modo di muoversi in campo velocissimo ed elastico, sempre in perfetto equilibrio; l’attitudine a lavorare sempre per potenziare il servizio sia sotto il profilo del gesto tecnico che sul piano del piazzamento e dell’uso delle rotazioni; la capacità di scegliere la posizione per la risposta alla battuta avversaria e la lucidità tattica su dove indirizzarla a seconda dell’avversario e del momento del match.

E ancora: la gestione degli scambi; la capacità di “non perdere campo” giocando d’anticipo, con i piedi vicini alla riga di fondo; l’impegno nella costruzione quotidiana di un bagaglio di soluzioni sempre più ricco, che possa permettere di attuare per ogni partita le strategie più efficaci a disinnescare il gioco avversario mentre si cerca di imporre il proprio.

IL BAGAGLIO DI COLPI PIU’ COMPLETO

Tutti riconoscono a Djokovic di essere il miglior ribattitore del circuito ma a nessuno verrebbe in mente che è anche uno dei migliori alla battuta: eppure i numeri dicono che dietro a giganti e specialisti come John Isner, Nick Kyrgios, Reilly Opelka, Hubert Hurkacz e Matteo Berrettini, c’è subito lui, n.6 per rendimento assoluto. Il suo diritto, apparentemente non memorabile e sicuramento costruito con infinito allenamento, ha disinnescato quello di Stefanos Tsitsipas, considerato uno dei due o tre più devastanti del circuito. Il rovescio bimane è l’arma definitiva, il colpo che non tradisce mai, la pietra angolare del suo gioco e al tempo stesso un gesto di assoluta pulizia, perfetta biomeccanica, il riferimento ideale per tutti i rovesci bimani del mondo.

Riccardo Piatti, lavorando con Djokovic proprio nel periodo della transizione tra l’alto livello giovanile e l’impatto con il circuito ‘pro’, aveva avuto modo di concentrarsi sui passaggi fondamentali (tecnici, fisici, di approccio mentale) dell’evoluzione del campione che avrebbe dominato il mondo. E si è reso conto che si trattava di passaggi riproducibili a patto che l’atleta abbia le caratteristiche tecniche, fisiche e di approccio mentale necessarie. Come dicevamo, le aveva riconosciute in Sinner ed era convinto di poterlo accompagnare al massimo obbiettivo. Poi le cose sono andate diversamente e Sinner ha deciso di proseguire la sua strada (peraltro già molto indirizzata) con Simone Vagnozzi a fargli da coach.

Resta comunque quello di Jannik l’esempio più eclatante di come il modello Djokovic sia quello che offre i maggiori riferimenti per chi va in cerca della massima qualità, un tennis in grado di essere vincente su tutte le superfici.

NUOVI ELEMENTI NELLA RICETTA VINCENTE

E anche in questa fase molto matura della carriera “Nole” sta aggiungendo nuovi elementi alla ricetta del successo, applicata in primis a se stesso. Il più evidente è lo studio accuratissimo dell’avversario e degli schemi di gioco che più possono metterlo in difficoltà, impedendogli di utilizzare al meglio le proprie armi migliori.

Potrebbe stupire infatti che il giocatore più settimane al n.1 del mondo e il record di Slam vinti, affronti un giovane in ascesa, come è successo con Lorenzo Musetti al Masters 1000 di Parigi/Bercy, pensando più a come impedirgli di giocare i propri colpi migliori che a dominare con i propri. Eppure Djokovic lo scorso novembre, memore della fatica che aveva fatto per avere ragione del carrarino nei precedenti faccia a faccia, scese in campo con un piano di gioco impostato per mettere in crisi il diritto dell’azzurro, ad una certa velocità e in una certa zona di campo: il 6-0 del primo set è un esempio (da studiare e ristudiare) della straordinaria lucidità e capacità esecutiva del serbo.

Un approccio che si è ripetuto nella finale dei recenti Open d’Australia dove Djokovic ha dominato Tsitsipas senza giocate memorabili (o particolarmente spettacolari) ma con un piano di gioco che ha reso falloso e inoffensivo il formidabile diritto del greco, proprio l’arma sui cui il prode Stefanos contava per conquistare il suo primo Slam e la leadership mondiale.


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