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Il tris di Safin, i successi di Khachanov e Davydenko, l’impresa di Coppa sempre nel palasport parigino…
di Vincenzo Martucci | 08 novembre 2020
Parigi, o cara. L’amore fra la Russia e la capitale francese è antico, anzi, storico. Parlando di tennis, il contingente più alto di finalisti al torneo di Parigi Bercy è curiosamente proprio di quel paese, con ben 9 finali, una più degli Stati Uniti (8, con 4 diversi protagonisti) e due di Francia (4) e Serbia (2).
L’ultimo della lista dei finalisti russi a Bercy, Daniil Medvedev, che sfida per il titolo Alexander Zverev - peraltro di bandiera tedesca ma figlio di due genitori russi - , è il quinto diverso tennista russo a presentarsi sotto il traguardo del nono Masters 1000 della stagione.
A conferma di una passione estrema dei giocatori di quel paese che, invece, negli altri grandi tornei, secondi per montepremi e partecipazione solo agli Slam, sono molto meno protagonisti, come dicono le 4 finali al Canadian Open e ad Amburgo, le 2 a Shanghai, una sola in ciascuno gli altri grandi tornei, e zero a Madrid.
Andando a ritroso nel tempo, nel 2018, Karen Khachanov ha sorpreso in finale Novak Djokovic per 7-5 6-4 riportando un russo sul trono dodici anni dopo Nikolay Davydenko che s’era imposto nel 2006.
All’epoca la finale si disputava ancora al meglio dei 5 set, e il solido ucraino naturalizzato russo si era imposto su Dominik Hrbaty col netto 6-1 6-2 6-2. Davydenko, grande regolarista, che quell’anno salì anche al numero 3 del mondo e in carriera firmò 12 titoli di singolare, nel 2007, proprio a Bercy, doveva diventare protagonista in negativo: l’arbitro, il francese Cedric Mourier, lo accusò di scarso impegno, soprattutto al servizio, dopo i dieci doppi falli coi quali favorì il successo di Baghdatis. “Stai servendo come me, e se batti così metti la palla fuori”. Un richiamo che arrivava in scia del torneo di San Pietroburgo, dove pure il maratoneta russo era stato invitato dal giudice di sedia a lottare di più, aumentando le voci di combine che sono sempre aleggiate su di lui.
Peccato che la sua immagine si guastasse così. Aveva riacceso il filone russo dopo la stella cometa Marat Safin, il campione bello e bravo che, dopo la finale persa a Bercy nel 1999 contro Andre Agassi, nel 2000 si era imposto sulla velocissima moquette indoor a Mark Philippoussis in cinque set, nel 2002 aveva superato in tre set l’altro australiano Lleyton Hewitt e nel 2004 aveva firmato la tripletta dominando il ceco Radek Stepanek.
I primi anni 2000 del classico torneo autunnale erano stati caratterizzati dai russi anche con le due sfortunate finali di Evgeny Kafelnikov, battuto nel 1996 dallo svedese Thomas Enqvist e nel 2001 dal beniamino di casa, Sebastien Grosjean. Anche se Parigi era comunque nel destino del principino di Sochi dalla tecnica purissima che, nel 1996, era stato capace sempre a Parigi, ma sulla terra rossa, di aggiudicarsi il Roland Garros, primo russo di sempre a guadagnare uno Slam. E di salire al numero 1 della classifica mondiale.
Del resto, sempre a Parigi, proprio al palasport di Bercy, nel 2002, la Russia strappò la coppa Davis in casa di Francia, prima ed ultima volta nella storia di una rimonta da due set a zero sotto nel singolare decisivo. In quella formidabile squadra in cui spiccavano Safin e Kafelnikov, l’eroe fu Mikhail Youzhny, l’attuale coach di Denis Shapovalov, che, sul 2-2, beffò Paul Henry Mathieu per 3-6 2-6 6-3 7-5 6-4.
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