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Parigi val ben una messa. La riscoperta della mancina ceca Kvitova che ha sfiorato la vetta cui sembrava destinata anche per qualche sgambetto del destino. Otto anni dopo, a Parigi, le sembra di essere rinata
di Vincenzo Martucci | 08 ottobre 2020
Alla ricerca del tempo perduto, come certi personaggi dei romanzi d’appendice che tutti copiano prima o poi (o rivivono sulla propria pelle), Petra Kvitova riappare sulla massima ribalta, nel semifinali di uno Slam, in meno atteso, il Roland Garros sull’ostica terra rossa, la superficie dove comunque è nata tennisticamente. La formidabile mancina rispunta dalla morìa di teste di serie di Parigi, dalla penuria di protagonisti di spessore e continuità del tennis donne, armata della sua perentoria potenza e di un improvviso e inspiegabile taglio netto di errori gratuiti, di pause profonde, totali, e spesso inspiegabili, nello stesso match che hanno caratterizzato la sua carriera. Il lock-down, le ha permesso di curare in profondità il fisico, di potenziare le giunture di quei 182 centimetri di atleta, di rilassarsi in famiglia, di ricaricare le pile e di liberare la mente dallo sfrenato agonismo. E anche di parlare un po’ di più con la sua mentore, l’idolo che l’ha accompagnata da sempre nel sogno tennis, la più famosa mancina di casa ceca, Martina Navratilova. Che le aveva pronosticato una carriera da superstar e che in tanti tornei, a cominciare da Wimbledon, la inserisce costantemente fra le favorite.
Petra dagli occhi celesti è sempre stata particolarmente sensibile proprio come Martina e facile alle lacrime. Come si è visto dopo il match contro Shuai Zhang che le ha aperto le porte ai quarti di finale di Parigi. In quel momento, la ragazzona, a dispetto dei suoi 30 anni, si è lasciata andare in un pianto liberatorio che ha commosso il mondo. Il tappo delle emozioni è saltato perché finalmente tornava ad alto livello?
In realtà non ci stava come reazione, perché agli Australian Open di gennaio aveva già toccato i quarti e l’anno scorso a Melbourne era arrivata in finale in uno Slam, la terza, la prima persa dopo i trionfi di Wimbledon 2011 e 2014. Ma in realtà ci stava perché, mentre sul veloce le cose per lei vanno più facili con quell’uno due, servizio-dritto che spacca, sulle terra ha bisogno di pazienza e attenzione, resilienza e tattica, in un mix di concentrazione che non l’ha mai caratterizzata. “Sono tornata indietro nel tempo alla semifinale 2012, la mia ultima a Parigi, quand’ero una giocatrice di terra simile ad adesso ma c’erano condizioni atmosferiche uguali, era duro anche allora e giocavamo col vento, con la pioggia e col freddo. E io sono orgogliosa di avere tenuto di testa e di aver sopportato la pressione come otto anni fa”.
Sentirsi come prima, come allora, ha liberato Petra della paura di nn poter mai più tornare indietro, a quella che era prima del fattaccio del 2016 quando un rapinatore irruppe in casa sua a Prostejov, lei reagì, nel tentativo di liberarsi, si tagliò i tendini della preziosa mano sinistra, rischiò di non giocare più a tennis, ma quattro mesi dopo riuscì a tornare alle gare proprio al Roland Garros 2017. “Nel rivedere in tribuna la gente che mi ha sostenuto uno ho avuto bisognosi ha fatto capire che il passato era davvero cancellato, e sono stata felice, e ho pianto di pura gioia”.
Sulla spinta emotiva di quel risultato, la ceca ha spazzato via anche la Laura Siegmund col 77% dei punti del suo magnifico servizio, si è ricordata di aver vinto 5 dei 27 titoli Wta proprio sulla terra rossa - anche se il maggiore, Madrid, è stato in altura, quindi in condizioni molto favorevoli per una attaccante come lei - e si è qualificato alla semifinali contro Sofia Kenin. “Arrivare così lontano proprio a Parigi, dopo questi quattro anni così duri, significa ancora di più dei risultati a New York o in Australia, per me è un doppio miracolo. Questo è il mio posto fortunato”.
Petra la dolce col cannone nel braccio, Petra l’alta e potente che non ha resistenza, Petra che all’improvviso molla e sparisce dal campo esaurendosi in bordate che escono dalle righe e colpiscono i teloni,. Petra che si commuove. Tanti sono i chiaroscuri di questa ragazza ceca che si è fermata più volte per infortuni e anche per una mononucleosi e che, nel 2019, dopo aver vinto Stoccarda, è arrivata a un passo dal numero 1 del mondo, ma non ce l’ha fatta e si è fermata al 2, a 136 punti da Naomi Osaka. C’era già arrivata nel 2011 e, subito dopo, forte del successo a Wimbledon e alle WTA Finals, le bastavano due partite vinte per conquistare la vetta. Ma anche lì, oppressa dalla tensione, era crollata a un passo dal traguardo. Incompleta, insuperabile, discontinua, imprevedibile, incomprensibile, la Kvitova ha firmato la propria carriera con continui alti e bassi, esaltandosi in nazionale con 6 successi in Fed Cup, vincendo su tutte le superfici, collezionando scalpi su scalpi di numeri uno, con sette presenze alle Finals di fine stagione con le migliori 8 del mondo, con cinque anni di fila chiusi fra le top ten, dal 2011 al 2015, per poi rientrare nell’èlite dal 2018, da indispensabile protagonista.
Poteva essere la nuova Navratilova - e la grande Martina spesso se ne è pubblicamente lamentata con lei -, poteva vincere molto molto di più, ma non ha mai trovato la delicata quadra del campione, anche per via di una fastidiosa forma di asma che mal si adatta alla vita di una atleta e di una vita sentimentale difficile. Dopo la relazione col collega Adam Pavlasek, è stata legata al più noto Radek Stepanek e poi al professionista dell’hockey Radek Meidl, col quale sembrava dovesse convolare a giuste nozze, prima di una brusca separazione. Perciò, ritrovandosi donna a Parigi dove aveva brillato da ragazza, è esplosa di gioia. “Ho fatto un miracolo, non avrei mai pensato di ritrovarmi dopo tanto tempo in finale agli Australian Open e in semifinale al Roland Garros”. Chissà ora le sue sensazioni che cosa le diranno, chissà il suo io più delicato e nascosto come trasferirà all’esterno questo momento di sorpresa felicità. Forse la prima dal 2006, quand’è spuntata sul circuito, timida, preoccupata, impaurita da quel mondo così grande per una ragazzina di Bilovec col cannone nel braccio e l’animo gentile.
Parigi val bene una messa. Da quando lo disse Enrico IV, tutti lo dicono indicando che “vale la pena sacrificarsi per ottenere uno scopo alto”. Anche allora si trattava di rinunciare a qualcosa: la sua fede protestante (l’offensiva a tutti i costi di Petra) in favore di quella cattolica (più attesa, più attenzione nella scelta della palla giusta da attaccare) pur di conquistare il regno di Francia.
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