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Campioni nazionali

Matteo l’italo… americano: pochi duri come lui

Alla sua seconda partecipazione agli UsOpen il 23enne romano raggiunge già gli ‘ottavi’: per Panatta, Pozzi, Sanguinetti e Lorenzi è stato il massimo risultato a New York nella carriera. Solo Corrado Barazzutti, semifinalista nel 1977, ha fatto meglio: però si giocava sulla terra battuta verde. Ora la sfida con Rublev è affascinante ma deve essere affrontata senza eccessi di pressione

di | 02 settembre 2019

Matteo Berrettini con la sua Head Extreme MP

Matteo Berrettini in completo Lotto e con la sua Head Extreme MP

In qualche modo Matteo Berrettini è già nella storia, anche se ha appena cominciato ad assaggiare l’aria rarefatta delle zone alte della classifica. Il suo qualificarsi per gli ottavi di finale degli Us Open è un’impresa per pochi con il passaporto italiano.

Meglio di lui, da che si gioca a tennis, ha fatto solo Corrado Barazzutti, semifinalista a Forest Hills nel 1977, battuto dal fenomeno Jimmy Connors. Poi si registrano i nomi di quattro giocatori hanno raggiunto il traguardo che il 23enne romano ha tagliato alla sua sola seconda presenza nel tabellone principale di New York: Adriano Panatta nel 1978 (battuto anche lui da Jimmy Connors), Gianluca Pozzi nel 1994 (superato dal tedesco Karbacher), Davide Sanguinetti nel 2005 (sconfitto dall’argentino Nalbandian) e Paolo Lorenzi nel 2017 (eliminato dal sudafricano Anderson). Fine. Il meglio del tennis italiano (al maschile) sul suolo dello Slam newyorkese è questo.

Le ragazze ci hanno regalato nel 2015 una magica finale tricolore, con vittoria di Flavia Pennetta che supera la sorella d’Italia Roberta Vinci. La loro generazione ha sfondato il cemento con altre due semifinali e 8 quarti di finale, grazie anche a Francesca Schiavone e Sara Errani.

Gli uomini hanno sempre sofferto i campi duri americani. La semifinali di Barazzutti arrivò infatti in quel periodo intermedio (1975-1977) in cui il torneo si giocò sulla terra battuta verde americana, dopo tre quarti di secolo di campi in erba e prima di quel trasferimento da Forest Hills a Flushing Meadows che consegnò definitivamente gli Open alla loro dimensione di ‘durezza’.

Uno scoglio contro il quale il nostro tennis di tradizione “terrabattutista” si è sempre infranto. Finché non è arrivata la “generazione Berrettini”, quella con il servizio che fa ‘bum bum’ e, se non basta, parte un missile con il successivo diritto. In primis Matteo, poi il ‘gemello diverso’ Sonego. Dietro di loro, con 5 anni di margine in più Jannik Sinner.

E’ finalmente un tennis da duro (e da duri) che apre ben altre prospettive. Barazzutti semifinalista a Forest Hills aveva 24 anni, uno più di Matteo oggi. Panatta era già ventottenne quando fece i suoi unici ‘ottavi’ su questi campi dove persino un mito come Borg ha sempre fallito. Pozzi ne aveva compiuti 29, Sanguinetti 33, Lorenzi 35. Tutti 'signori giocatori' ma già nella seconda metà della carriera.

Quando prendiamo in considerazione Matteo Berrettini parliamo di un tennista che da n. 25 Atp (ma n.17 della Race to London che tiene conto solo dei risultati nel 2019) ha ampissimi margini di miglioramento ma anche un’esperienza ancora modesta.

Può solo migliorare ancora e parecchio. Per questo è davvero un fenomeno nuovissimo nel nostro movimento, il segno di una svolta importante. Ha la mentalità dei grandi: la capacità di recuperare dall’infortunio alla caviglia cui è andato incontro in allenamento dopo Wimbledon (invece di andare a Gstaad a difendere il titolo, andava in giro con le stampelle) è un’ulteriore dimostrazione di forza.

E’ giusto che arrivato a questo punto del torneo punti al massimo. Il test di domani contro Andrej Rublev è di quelli davvero tosti, considerato che il giovane russo ritrovato (dopo il periodo buio seguito a un serio infortunio dello scorso anno, una frattura da stress a una vertebra) negli ultimi 15 giorni ha fulminato Roger Federer in due set a Cincinnati, ridimensionato Stefano Tsitsipas e Nick Kyrgios (ieri sera) agli Us Open.

Comunque vada a finire, andrà bene, secondo la logica cara a Matteo, che non perde mai: o vince o impara. Dunque è con uno spirito che guarda al futuro, con i tempi giusti, che merita seguirlo: con grande attesa, passione e speranza ma senza inutile fretta e pressione.

Rublev è sembrato inattaccabile anche a Federer: se batte missili, risponde saette e spara tutto, di diritto o di rovescio, sulle righe, senza un angolino di campo dove provare a disturbarlo, si va a stringergli la mano e arrivederci alla prossima.

Se invece si riesce a instillargli l’ombra di un dubbio e la sua gragnuola di proiettili non prende sempre il bersaglio, potrebbe venire allo scoperto il suo unico vero punto debole, che è sempre stata la tenuta mentale. E a quel punto….

Comunque vada Matteo Berrettini ha già un’impronta di peso nella storia del nostro tennis, con i tre titoli vinti (Gstaad 2018, Budapest e Stoccarda 2019) e il piazzamento tra i migliori 16 giocatori di questa ultima prova dello Slam 2019. E alla fine del torneo, comunque vada, risalirà al n. 20 della classifica, suo record personale.

L’ occhio tecnico: la sua racchetta, le sue corde 

Matteo Berrettini utilizza una Head Extreme MP, piatto da 100 pollici quadrati, manico n.3, che customizzata e incordata pesa 350 grammi.
Chiede una tensione non troppo elevata, 23/22 kg: la corda è una Signum Pro Firestorm, sintetico monofilamento, calibro 1,30 mm.

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