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Campioni nazionali

Matteo, il lusso della leggerezza: è il "New York State of Mind"

Sicuro di non perdere i punti della semifinale dello US Open 2019, Matteo Berrettini è partito per gli USA accompagnato dal fisioterapista spagnolo Ramon Punzano e dall'amico Marco Gulisano. Era con lui anche a Gstaad nel 2018 quando vinse il suo primo titolo ATP in singolare.

di | 20 agosto 2020

Matteo Berrettini dopo la finale del Bett1 Aces a Berlino contro Dominic Thiem

Matteo Berrettini dopo la finale del Bett1 Aces a Berlino contro Dominic Thiem

Non se lo sarebbe certo immaginato così, il ritorno a New York. Un anno fa, Matteo Berrettini diventava il primo italiano in semifinale allo US Open dopo Corrado Barazzutti nel 1977: si giocava sulla terra verde a Forest Hills, Jimmy Connors gli rubò un punto e non ci fu partita. Dodici mesi dopo, Berrettini si può mettere alla prova senza la pressione della conferma, ma con l'imprescindibile esigenza di gestirsi in uno scenario che non consente programmazione.

 

"Se andrò non sarà certo per i punti, ma per quello che Flushing Meadows ha rappresentato lo scorso anno per me” ha detto. Però i punti, quelli della semifinale del 2019, resteranno comunque vada. Potranno solo aumentare, ma questo dipenderà da lui. Intorno, però, rispetto a un anno fa è cambiato tutto. Si gioca senza pubblico, dentro una bolla, sospinti da onde ingovernabili e imponderabili tanto quanto la curva dei contagi che riprende a salire.

Numero 8 del mondo, primo italiano al Masters dopo quarant'anni al termine dell'emozionante rincorsa trasformata da sogno di mezza estate in concretissima realtà d'autunno la scorsa stagione, Berrettini si può concedere il lusso della leggerezza. Non della superficialità, che non sarebbe da lui. “Mi piace capire prima di fare, comprendere il fine delle cose” spiegava al Messaggero l'anno scorso.

 

Vuol dire andarsi a cercare una bolla nella bolla, sentire il momento, seguire l'onda e accettare che non tutto sarà sotto il suo controllo. Perché non tutto sarà controllabile nel primo Slam dopo il lockdown, il primo major nella stagione del coronavirus.

Matteo Berrettini dopo la finale del Bett1 Aces a Berlino contro Dominic Thiem

A New York con l'amico Gulisano

Così, tra l'obbligo di portare non più di tre persone nello staff e il timore del suo coach storico Vincenzo Santopadre di partire per gli USA e magari contagiarsi, Berrettini si ritrova come a Gstaad due anni fa. Con tante domande, dopo un periodo difficile, con accanto la fidanzata e un grande amico, Marco Gulisano, oltre all'osteopata/fisioterapista spagnolo Ramon Punzano. Marco e Matteo, sarebbe facile identificarli come M&M, si sono conosciuti da bambini, sono cresciuti giocando a tennis insieme ma chi dei due sarebbe diventato campione già si capiva.

 

Gulisano, buon 2.4 entrato nello staff della Rome Tennis Academy, era con lui anche durante l'Ultimate Tennis Showdown, l'esibizione organizzata da Mouratoglou con regole e punteggi fin troppo da videogame. Per capire il loro rapporto, bastano pochi secondi di quell'esperienza. È un time-out durante una partita che l'azzurro ha largamente vinto contro Gasquet. “Stai giocando bene” gli dice Gulisano già con un sorriso, “non ti servono consigli. Dì la verità, mi hai chiamato per vedere come me la cavo con l'inglese”.

L'equilibrio dei caratteri allora ha funzionato alla grande. Come è andata quella settimana, ce lo ricordiamo tutti, Matteo gioca un tennis perfetto, vince il primo titolo ATP in singolare e fa doppietta, in doppio con Bracciali. La palla corta sul match point della finale con Roberto Bautista Agut è una virgola di poesia e allo stesso tempo un manifesto. È improvvisata ma non è improvvisazione. È il risultato di una settimana rivelatrice.

 

Crescere, infatti, “vuol dire anche ogni tanto fare la strada da soli, magari con una compagnia più ‘scialla’ ma implicitamente assumendosi tutte le responsabilità” ha scritto Enzo Anderloni sulle pagine del nostro sito. A lui, Berrettini ha confermato le due sensazioni dominanti di quella settimana, divertimento e rilassatezza. “Non ho mai sentito pressione, tensione: è sempre stato un divertirsi” ha spiegato, “quando uno si sente a suo agio anche gli eventuali punti persi è come se non influissero sul gioco”.

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Prima di partire, Santopadre gli aveva chiesto di giocare il meno possibile e abituarsi alle condizioni, perché con l'aria rarefatta la palla viaggia più veloce e rimbalza più alta. A New York, abituarsi alle condizioni significherà ben altro, ma Berrettini è cresciuto. E poi, è da tutta la vita che si gestisce, considerata la lista di infortuni che ha sofferto già da giovanissimo.

 

L'uomo Berrettini, poi, ha trascorso il lockdown fino a maggio negli USA mentre tutto lo staff era in Europa. Hanno lavorato a distanza, con le chiamate via Zoom, hanno studiato di più le statistiche perché il tempo sospeso lo consentiva. “Abbiamo insistito molto su servizio e risposta” ha detto Santopadre in un'intervista al sito dell'ATP, in cui ha sottolineato un altro aspetto chiave che ha già aiutato Berrettini in passato.

 

“Matteo era in Florida con la fidanzata Ajla Tomljanovic, abbiamo cercato di far sì che si godesse un po' questo periodo per quanto possibile. Poi, io e lui non abbiamo bisogno di essere fisicamente insieme. Perché anche quando siamo fisicamente lontani, i nostri pensieri sono vicini”. Il numero 1 azzurro, ha spiegato il coach, ha capito benissimo la sua decisione di non partire anche per timore di un eventuale contagio dei familiari al ritorno in Europa. Leggerezza e responsabilità, è sempre questo il suo “New York state of mind”.

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