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L’altoatesino, 17 anni e n. 209 del mondo, sarà il più giovane alle qualificazioni di Wimbledon che cominciano domani. Andiamo a scoprire, nel racconto del suo mentore, il percorso di crescita del talento più sorprendente del circuito e perché l’Italia può contare su di lui come prossimo top player
di Enzo Anderloni | 22 giugno 2019
Però a rete ci dobbiamo andare lo stesso, tutte le volte che possiamo, decisi a fare punto. Il punto che segue è preso al volo dalla settimana appena passata. E’ domenica mattina e la colonna sonora per un momento pacifico di lettura potrebbe essere proprio l’attacco di ‘Sunday morning’, storica hit dei Velvet Underground.
Domani cominciano le qualificazioni di Wimbledon, sui campi in erba di Roehampton. Come tradizione. Jannik Sinner è arrivato a Londra l’altro ieri. Si è qualificato per giocarle.
E’ uno dei 128 tennisti provenienti da tutto il mondo che si contenderanno i 16 posti in palio per il tabellone principale del torneo più antico e prestigioso del mondo. Ma non è uno dei tanti.
E’ il più giovane di tutti. E’ nato a San Candido in Val Pusteria il 16 agosto del 2001, deve ancora compiere 18 anni ed è già n. 209 del mondo. Ha addosso gli occhi di tutti.
Nessun risultato eclatante a livello junior: non ha costruito il suo percorso sui tornei giovanili. Così è spuntato fuori come all’improvviso, quest’anno, mettendo insieme in sei mesi i punti che servivano a giocare Wimbledon dei grandi mentre i più bravi del mondo della sua età giocheranno Wimbledon dei piccoli.
Come ha fatto ad arrivare fino a Londra così in fretta, all’improvviso, senza avvisare? Ci siamo persi qualcosa? Proviamo a riavvolgere il nastro e a recuperare il tempo perduto. Con l’aiuto del suo allenatore, quello che se l’è messo in spalla, come disse Gil Reyes ad Andre Agassi, per portarlo a realizzare i suoi sogni: Riccardo Piatti.
Uno che ha cresciuto prima Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Cristian Brandi e Federico Mordegan. Poi ha preso il 18enne Ivan Ljubicic e l’ha accompagnato fino al n. 3 del mondo, rimanendogli a fianco per tutta la carriera. Nel “mentre” ha seguito per un anno il giovane Novak Djokovic. Per quasi due Simone Bolelli. E dopo ‘Ljubo’ si è dedicato a Richard Gasquet, Milos Raonic. Ora, oltre che di Jannik Sinner, è anche coach del croato Borna Coric, n. 14 del mondo. Ascoltiamolo.
“La storia comincia 6 o 7 anni fa, quando io e Massimo Sartori ci allenavamo con i nostri giocatori al vecchio circolo di Bordighera. Massimo continuava a dirmi che c’era un ragazzino che dovevo vedere. Io volevo sapere quanti anni aveva, con chi si allenava, perché di solito prendevano in considerazione solo i ragazzi insieme ai loro maestri. Questo non aveva un suo vero allenatore, era già grandicello, giocava tre volte alla settimana. Continuavo a rimandare, una, due volte, perché non mi sembrava che non ci fossero le condizioni per immaginare qualcosa di interessante. A un certo punto Sartori mi prese alla sprovvista: dove sei giovedì? Sono qui al circolo. Bene, giovedì viene Jannik”.
“Arrivò questo ragazzino, mi pare fossimo in gennaio. Aveva 13 anni e mezzo. Lo vedo e dopo mezz’ora dico a Massimo: Come facciamo ad adottarlo? Era il tipo di giocatore che piace a me: spingeva, veniva avanti, era molto veloce, giocava vicino alla riga, cercava sempre la rete. Dava l’idea di uno che le partite vuole andare a vincere. Non vuole stare ad aspettare che le perdano gli altri. Aveva i capelli lunghi rossi. Era molto silenzioso. Molto attento su tutte le palle, molto determinato. Mi è piaciuto davvero”.
“Il mese successivo sono andato in montagna a Selva di Val Gardena, come facevo tutti gli anni, e l’ho invitato a fare due o tre giorni con me. E’ venuto e ho conosciuto i suoi genitori. Mi hanno raccontato che era campione italiano di sci ma voleva giocare a tennis. E non poteva rimanere lì tra le montagne altoatesine per farlo ad alto livello. Voleva venire a Bordighera da me. Mi ha colpito il fatto che i genitori, nonostante fosse così piccolo, lo avrebbero lasciato andare via di casa. Conoscendoli poi ho capito che erano persone molto concrete, molto in gamba. Ho accettato l’idea che venisse a Bordighera ma non volevo fosse un trauma: l’abbiamo fatto gradatamente. Ci siamo visti a Sesto, poi è stato 4 o 5 giorni a Bordighera ad allenarsi. In maggio l’ho portato con me a Roma, agli Internazionali BNL d’Italia. L’ho fatto giocare per la prima volta con un professionista, l’austriaco Julian Knowle, che è stato primi 100 in singolare e ha vinto gli Us Open in doppio. Poi è venuto due settimane in estate all’Isola d’Elba in casa con me. Successivamente abbiamo deciso di portarlo a Bordighera. Lì però non potevo metterlo a vivere da solo. Dovevo trovargli una casa, una famiglia. Ha trovato entrambe le cose con Luka Cvjetkovic, un maestro dei nostri che ha due figli più giovani di Jannik. Luka è croato, ha un’educazione molto simile a quella dei genitori di Jannik e lui si è trovato subito bene”.
Il segreto della crescita di Jannik è stato fidarsi delle persone che ha incontrato e, come dico io, “essere sul progetto”: vuole diventare un giocatore forte. Per arrivare lontano bisogna guardare lontano. Lo dico mille volte: a me dei risultati dei ragazzi non frega niente, ma di come giocano sì. Di come si comportano sì. Per esempio: Jannik un giorno è andato giocare un torneo qui vicino e ha perso 6-1 6-1. Però era venuto 25 volte a rete e l’atteggiamento era sempre buono. A me andava bene così. Le persone che vengono al mio centro fanno parecchi investimenti. E si aspettano dei risultati. Però per me il risultato non è se vincono o perdono la partita. E’ se loro comandano il gioco, se hanno un buon atteggiamento, se lottano, se superano le frustrazioni. Soprattutto in età giovanile a me è quello che interessa. Poi arriverà tutto il resto. Jannik ha attraversato questa fase. Lui in età giovanile ha fatto i vari campionati ma con uno spirito particolare. Lo racconto sempre: un anno c’erano i Campionati italiani under 16 a Sanremo. Lui aveva 15 anni. I maestri qui erano tutti pronti a portarlo. E io ho detto no: Jannik prende il treno da Bordighera, va a giocare a Sanremo e torna indietro. Lui ha fatto così. Quell’anno ha perso negli ottavi da Arnaboldi. E nessuno di noi l’ha visto: si è arrangiato a guardarsi gli orari, prendersi i treni, giocarsi le partite. E adesso, al torneo di Lione, è andato solo con il nostro fisioterapista. Io sono concentrato sulla crescita di Jannik, come giocatore e come persona. Questo secondo me deve fare un allenatore di tennis”.
“E’ chiaro che sono molto attento. E più sale il livello più devo stare attento. Non perché lui si distragga, ma perché ha sempre più persone intorno che magari vogliono fargli vedere la realtà in un altro modo. La realtà per lui adesso è che c’è una strada molto lunga da fare. Lui ha già iniziato il percorso e deve essere molto attento, molto preciso in tutte le cose che fa tutti i giorni. L’esempio classico è Nadal. Per vincere 12 Roland Garros non fa le cose a metà. Le fa appieno. E’ imbevuto nel tennis. Per quello sin dall’inizio lui ha avuto un team di persone molto qualificate che l’hanno aiutato. Quando aveva 15 anni un giorno gli ho chiesto: ma chi è il migliore allenatore per te? Lui mi guarda e mi dice: sei tu. Gli ho risposto: no, sei tu il tuo miglior allenatore. Io ti metto in condizione di avere intorno persone capaci e preparate che ti aiutino a esprimere quello che vali”.
“Adesso sono in un ‘altra fase con lui: sono quello che deve rompere, sono un po’ rompicoglioni. Esigo che faccia tutte le cose sempre molto bene. In allenamento voglio sempre il massimo da lui. Quando è qui al centro sono sempre in campo io con lui. Quando non è a Bordighera e va in giro con altri maestri (con Volpini, con Brandi o con Sartori) voglio che faccia le cose gli dico. I movimenti dei piedi, come andare a colpire la palla, il servizio, le volée, le risposte, gli atteggiamenti. Se ogni tanto noto qualcosa di contrario intervengo e sono molto pesante. Non con gli allenatori ma con lui. Perché lui sa che cosa deve fare. Gli allenatori devono solo verificare che tutto succeda. In questo senso ho responsabilizzato sia lui sia tutte le persone che gli stanno vicino. Lui però è il primo responsabile. Di tutte le cose che gli succedono, di tutte le cose che faccio per lui. Gli parlo di tutto: l’attività, i contratti, i tornei, gli allenamenti. Per tutte le decisioni mi confronto con lui anche se ha solo 17 anni, 18 quest’anno. Per diventare un giocatore forte deve essere cosciente di tutto e avere la capacità di conoscere tutto. Sono contento che venga già a giocare i tornei più grandi. In particolare che sia venuto sull’erba a s’Hertogenbosch e Halle dove ha avuto la possibilità di giocare con (e di veder giocare) i giocatori più forti. E’ lì che impara, confrontandosi con questi. Certe volte mi dicono: dovrebbe giocare anche a un livello più basso per vincere. Io questa roba non l’ho mai capita e forse non la capirò mai. Il giocatore forte è quello che va a vincere i tornei dove ci sono quelli forti. Non dove ci sono gli scarsi. Ce ne sono mille che vincono con gli scarsi, pochi che vincono con i forti. Secondo me in età giovanile è importante insegnare a vincere con i forti.
“Quando si allena, si allena meglio di tutti gli altri, tutti quelli che ho avuto. Se gli dici una cosa la fa e la fa subito bene. E’ mono-pensiero, monotematico: pensa al tennis. Per di più ha il fisico dalla sua. E si trova in un ambiente che fa capo a me, che sono monotematico: penso solo al tennis. Ci sono tutte le condizioni perché si possa esprimere. Ho la consapevolezza che deve lavorare non tanto: tantissimo. Ma lo sta facendo L’altro giorno, eravamo ad Halle: ha giocato un’ora con Richard Gasquet, un’ora con l’argentino Pella e un ‘ora e mezza con Sasha Zverev, con in campo Lendl (Al quale poi ho chiesto un punto di vista, suggerimenti, indicazioni…). Poi ha svolto anche tutta la sessione di atletica. Tutti i giorni sono così. E non mi chiede mai di fermarsi”.
“Un'altra cosa importante: per lui il tennis è un gioco. Lo vive come un gioco. Non è un lavoro. Gli piace giocare a tennis. Non gioca a tennis perché vuol farsi bello, ma perché vuol colpire quella ‘ca...o di palla’, andare veloce, andare a fare il punto. L’ho portato ad Halle e giocava con i primi del mondo ma quando verrà all’Elba a giocare con dei ragazzini per lui sarà uguale, non cambierà niente. Giocherà con mio figlio Rocco con la stessa attenzione con cui giocava con Zverev. Quindi è molto avanti sotto questo aspetto.
“Il capo del team è Jannik. Io faccio tutto il lavoro tecnico, tattico e prendo le decisioni sull’attività. Poi a seconda delle settimane mando in giro Andrea Volpini, Cristian Brandi o Massimo Sartori. Per la preparazione atletica il responsabile è Dalibor Sirola; quando non c’è lui c’è Massimiliano Pinducciu ( che è anche l’allenatore fisico di Seppi). Per la parte di osteopatia ci sono Claudio Zimaglia e Alfio Caronti. La fisioterapista è Nicole Gelio. Sul campo da tennis con lui ci sono sempre io e le indicazioni tecniche sono le mie. Così la linea è una sola. Quando ci sono dei cambiamenti tecnici li spiego prima a lui e poi a tutti gli altri. Quest’inverno per esempio Jannik ha cambiato il servizio e abbiamo lavorato sulla mano sinistra nel diritto”.
“L’esperienza sull’erba è stata importante perché è la superficie su cui ho visto il prototipo di giocatore che sarà Jannik. Un giocatore di servizio, di primo colpo e che deve venire a rete. Alla risposta, sulla seconda di servizio dovrà rispondere per comandare. E alla prima palla buona deve venire avanti a chiudere il punto a rete. L’attitudine offensiva lui ce l’ha. Deve migliorare ancora il servizio e le volée. Ma fra due anni giocherà così. Sarà un giocatore d’attacco, sarà lui a fare gioco, lui a vincere le partite. Non aspetterà che gli altri gliele regalino. Per questo credo che arriverà a un livello alto. Molto alto”.