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Hanno dovuto fermarsi le rappresentazioni, al teatro Eliseo, di “Roger” il monologo interior-tennistico interpretato da Emilio Solfrizzi. Ma il senso profondo del testo è che contro qualunque avversario, per quanto potente e invisibile, la sfida sarà sempre aperta
di Piero Valesio | 17 marzo 2020
Il virus ha bloccato non solo il tennis giocato (dai big e da noi) ma pure quello raccontato. A Roma, al Piccolo Eliseo, avrebbe dovuto andare in scena e restarci per un mesetto il monologo interior-tennistico “Roger” scritto da Umberto Marino (quello di “Italia-Germania 4-3 e di “Volevamo essere gli U2” per capirci) e interpretato da Emilio Solfrizzi. Tutto rimandato, ovviamente.
Aspettando la reprise è bello accorgersi, però, che quel testo porta la nostra attenzione, con grande forza, sulla natura non tanto demoniaca (come spesso sostiene la vulgata) ma metaforica del nostro sport.
Sul palcoscenico Solfrizzi è solo, gioca contro un ipotetico avversario n.1 al mondo (Roger) che sta dall’altra parte del campo ma è immerso nel buio, non si vede, anzi non c’è. A proposito di avversari invisibili vi viene in mente qualcosa? A me sì.
E il numero 2 (lui, noi) gioca una partita che non può vincere o forse vorrebbe solo giocarla giusto per il gusto di provarci ma non può: forse il massimo è immaginare di giocarla, quella partita.
Ma il fatto è che quando il n.2 (noi, lui) si siede al cambio campo e vorrebbe chiuderla lì perché non ne vale la pena, perché è stanco, perché in fondo vadano tutti al diavolo, compreso quello che non si vede immerso in quel buio al di là dalla rete, si sente una voce dal nulla:
“TIME”
E tutto ricomincia. Deve ricominciare. Per lui e per noi.
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