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Eventi internazionali

La lezione di Gianni Clerici

Non seguire le orme dei maestri: cerca ciò che loro hanno cercato

di | 07 giugno 2022

Gianni Clerici ci ha detto addio. Le pagine dei giornali sono piene dei ricordi di chi lo ha conosciuto e frequentato, di chi lo ha ammirato, di chi ha imparato qualcosa da lui. Tutti noi, giornalisti legati principalmente al mondo della racchetta, abbiamo sentito il bisogno di dire o raccontare qualcosa, talvolta in modo viscerale e disordinato, usando la prima persona (che nel nostro mestiere è una cosa che non si dovrebbe fare) perché era impossibile non essere legati, direttamente o indirettamente, a un maestro come lui. Come se un appassionato di tennis contemporaneo non fosse legato in qualche modo né a Federer né a Nadal, per ricordi, emozioni, momenti unici.

Si parla di Clerici, o di noi e Gianni, per esorcizzare il dolore: insieme a lui se ne va inevitabilmente e definitivamente un pezzetto di te e il distacco fa male. Resta la ferita, si farà la cicatrice. Ma non sarai più lo stesso di prima. Come il piede di Nadal non sarà mai più quello di prima. E la caviglia di Zverev. Si guarisce, si va avanti, magari anche migliori se dal dolore si è imparato qualcosa, ma diversi.

Dunque viene spontaneo domandarsi: che cosa abbiamo imparato da Gianni Clerici? E non intendo sul piano umano, culturale, estetico, lessicale ecc.ecc.: gli spunti sarebbero infiniti. Mi viene spontaneo concentrami sul modo di Gianni di raccontare il tennis, che è il motivo per cui lettori e aspiranti cronisti sono stati catturati da lui per oltre mezzo secolo, traendone piacere, divertimento anche, spunti di riflessione e di discussione ma soprattutto un grande godimento, che è il regalo più bello che ci ha fatto.

Per chi voleva seguirne le orme, cercare di imitarlo si è sempre rivelato inutile, impossibile, controproducente. Come provare a essere un clone di Federer. Nel suo caso è più utile (e praticabile, se si hanno ambizioni di questo genere) seguire l’insegnamento zen del saggio Ma-Tzu (chissà, questa ti sarebbe piaciuta Gianni…)  quando dice: “Non seguire le orme dei maestri. Cerca ciò che loro hanno cercato”.

E dunque: che cosa cercava di fare Gianni Clerici ogniqualvolta si trovava di fronte al compito di parlare di una partita di tennis e dei suoi protagonisti? La risposta si trova in quasi tutti gli articoli che oggi lo ricordano; sta nella frase ironica del suo grande compagno di telecronache Rino Tommasi: “Gianni magari si dimentica di dirti chi ha vinto. Ma sa sempre spiegarti perché”.

Ecco: un signore che è nato nel 1930 e ha cominciato a scrivere di tennis nel 1956, ha sempre fatto, sin da un’epoca giornalistica che oggi sembra il paleolitico (la carta è morta e nelle edicole di Milano c’è chi vende insalata di riso e macedonia), qualcosa che è più che mai attuale, modernissimo. Allora di sicuro sconvolgente.

La sua attenzione non si concentrava sul risultato, come se desse per scontato che chi lo leggeva, il giorno dopo sul giornale, sapesse già (tramite televisione o radio) come era andata a finire la partita.

Quello che lui si proponeva era di raccontare con la maggiore verità possibile e la migliore forma, ciò che era effettivamente successo sul campo: approccio psicologico, scelte tattiche in funzione di soluzioni tecniche, paure, motivazioni, questioni esistenziali. Il suo tentativo era rendere la scena nel modo più vero e al tempo stesso originale. Qualche volta sceglieva di inscenare una rappresentazione teatrale che diventava più vera del racconto delle palle break, delle percentuali di servizio. Per cui il succo dell’impresa o del tracollo, di McEnroe o Borg, di Agassi o Sampras, di Federer o Nadal, magari te lo raccontava un tizio (reale o immaginario) che incontrava in ascensore o a colazione in hotel, prima di recarsi sul Centre Court di Wimbledon o al Roland Garros.

Come scrive oggi Massimo Gramellini sul Corriere della sera, “la verità è che dopo aver letto il suo pezzo ti sentivi meglio”, e questo è merito della sua capacità di scrittore di generare bellezza con le parole. Più affascinante ancora è il fatto che, nel produrre questa bellezza letteraria, non perdesse mai di vista la verità tecnico/sportiva: aveva giocato a tennis e capiva del gioco a un livello che gli permetteva di essere affidabile nello spiegarti perché quel giorno quella partita era andata così. Ma soprattutto ci riusciva perché quello era il suo obbiettivo.

Cercava la vera storia della partita e degli attori in essa impegnati. Andava sempre a grattare sulla superficie dei risultati, dei dati, per capire, per andare in profondità. E proprio per questo non si dava pace che un tipo emotivo e psicologicamente delicato come Roger Federer non avesse letto Freud, dunque non avesse provato a grattare sotto la superficie dei suoi tentennamenti su storici match-point.

A pensarci bene, oggi che il nostro modo di informarci è istantaneamente dominato dai livescore, con enormi quantità di statistiche e rilevamenti messi a disposizione di chiunque, l’approccio di Gianni Clerici risulta moderno e attuale più che mai. Chi ha vinto lo sappiamo tutti già. Lo sappiamo in tempo reale. E siamo in grado di risalire in un pico-secondo anche ai grafici con la palla break decisiva, le percentuali di punti “con la prima”, gli scambi da 0a 4 colpi, da 5 a 9 colpi (chi ne ha vinti di più).

E’ sempre più raro però trovare qualcuno, attendibile, che spieghi come e perché. Le televisioni si affidano ai talent, quasi sempre ex -giocatori, confidenti che loro siano all’altezza del compito. Ma i talent non sono quasi mai giornalisti, né scrittori: per spiegare servono le parole.

La lezione di Gianni Clerici mi sembra dunque sempre attuale, forse ancora più attuale oggi che ai suoi libri antichi, alle sue fonti da biblioteca abbiamo sostituto la rete e wikipedia: provare a raccontare come e perché qualcuno ha vinto una partita, scrivere la storia che è sottesa a quel 3-6 6-4 7-5, far uscire l’umanità dei protagonisti. Cercare la verità anche in una storia così minuta, puntuale: qualche ora di vita su un campo da tennis, a picchiare una pallina dentro le righe, cercando di fare in modo che l’altro non riesca a prenderla.

Questo si può cercare di farlo, anche senza essere Gianni Clerici. Ed è già qualcosa che di sicuro lui apprezzerebbe, perché ci vedrebbe sotto una ricerca di informazioni, di riflessioni, di competenze, non banale.

Poi resta il problema della scrittura, dell’originalità, della bellezza che portavano, nel suo caso, a quel “sentirti meglio dopo aver letto il suo pezzo”. Questo è tutto un altro paio di maniche. E, purtroppo, nell’epoca in cui bisogna scrivere “SEO”, perché i robottini di Google mettano il tuo articolo in cima alle ricerche, viene da chiedersi dove sarebbero finiti i 'pezzi' di Gianni Clerici, con la parola colta, il neologismo e le ripetizione erano proibite, come i luoghi comuni. Quelli con più verità dentro. Ma questa è un’altra storia, di cui lui ora ha la fortuna di non doversi più occupare.


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