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Dopo Novak Djokovic, Lorenzo Sonego elimina anche Daniel Evans e raggiunge a Vienna la seconda e più importante finale in carriera. Ha ottime probabilità di essere testa di serie al prossimo Australian Open. Il suo tennis, come la "sua" Torino per Italo Calvino, tiene insieme creazione e rigore
di Alessandro Mastroluca | 31 ottobre 2020
Salta e sorride, Lorenzo Sonego. I pochi tifosi ammessi sono tutti per lui, lo applaudono mentre il dj fa risuonare "Volare" nella versione dei Gipsy King. Per lui, l'intervistatore ha preparato le domande in italiano a fine partita. Ma Lorenzo risponde comunque in inglese. Non ha molto da dire, ma nient'altro servirebbe da dire. "Sono molto felice" ripete. Ha battuto Daniel Evans, ha raggiunto da lucky loser la sua prima finale in un ATP 500 che non avrebbe nemmeno dovuto giocare, senza perdere un set e dopo aver lasciato tre game a Novak Djokovic.
Comunque vada la finale con Andrey Rublev, che potrebbe diventare il giocatore con più titoli vinti nel 2020, sarà almeno numero 32 del mondo la prossima settimana. Se finisse l'anno così, vorrebbe dire essere testa di serie all'Australian Open 2021. Sembra incredibile, ma solo tre anni fa a Melbourne Sonego vinceva la sua prima partita nel circuito maggiore.
La finale di Vienna, la 166ma per un giocatore italiano nel circuito ATP (da quando esiste il ranking computerizzato), matura dopo il primo ottavo di finale Slam, al Roland Garros, conquistato dopo un memorabile tiebreak da 36 punti al terzo set del terzo turno contro Taylor Fritz. Matura nel segno della continuità, grazie a 25 vincenti di cui 17 di dritto.
L'impresa di Sonego: Djokovic ko - Le foto
L'intervistatore fa solo un'altra domanda al torinese Sonego: Juventus o Torino? La risposta, per chi lo conosce, è scontata. E infatti arriva pronta e diretta come nessun'altra nelle interviste a caldo dopo il match. Di famiglia torinista, a parte la sorella cresciuta con la passione per la Juve, è cresciuto vicino allo stadio del Toro e la maglia granata l'ha anche indossata, dai sei ai tredici anni. A dieci ha provato il tennis, lo sport che giocava suo padre, un buon terza categoria.
Fino ai 13 li gioca tutti e due. A calcio è più bravo che a tennis, ha raccontato, ma lo sport individuale gli regala più soddisfazioni. Suo padre Giorgio parla del piccolo Lorenzo al suo compagno di doppio di allora, il direttore del circolo Sporting Stampa di Torino. Si chiama Gianpiero Arbino, tutti lo conoscono come "Gipo". Siamo intorno al 2006, sta per iniziare una delle grandi storie di successo del tennis italiano nell'era moderna.
Arbino sorride felice nell'angolo di Lorenzo, si vede bene anche sotto la mascherina. Ha creduto in Sonego quando nessun altro sarebbe stato disposto a scommettere su un ragazzo arrivato tardi al tennis, per gli standard attuali.
Fino al 2017, Sonego resta ai margini del tennis che conta. A 22 è numero 364 del mondo quando si iscrive al Challenger di Ortisei, sul duro indoor. Lo vince senza perdere un set. E' il suo primo trionfo nel circuito Challenger.
Poi arriverà l'Australian Open del 2018 a segnare un cambio di passo, ad anticipare il futuro. Il tempo prende velocità, a Montecarlo nel 2019 batte per la prima volta un top-10, Karen Khachanov, e per la prima volta raggiunge i quarti di un Masters 1000. Due mesi dopo, vince il primo titolo ATP sull'erba di Antalya.
Allora come oggi, contro Daniel Evans, aveva di fronte un avversario che sentiva di avere la sua stessa grande occasione. A Vienna, l'ha affrontata con maturità e lucidità ancora superiori. "Devo lavorare su come stare in campo e sull'atteggiamento" diceva ieri dopo il trionfo su Djokovic.
Sonego, quarto italiano in finale in un ATP 500 da quando esiste questa categoria di tornei, nel 2009, racconta al mondo la Torino di Italo Calvino, che "invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia". Dentro questo equilibrio, il Sonego ritroso di fronte all'ostentazione delle emozioni si accende una volta in campo. Appassiona per impeto, per quel visibile desiderio di spendersi al massimo. Nella convinzione che l'importante non sia solo vincere, ma battersi bene.
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