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Durante l'Australian Open i tennisti hanno cercato costantemente i propri coach. L'ha fatto perfino Djokovic contro Rublev. Ma a volte i maxi-schermi giocano brutti scherzi
di Dario Castaldo, da Melbourne | 26 gennaio 2023
Mamma Jill era volata a Melbourne per l’occasione, prendendo il primo aereo buono appena uscita dall’ufficio. Non poteva mancare al primo quarto di finale Slam del figlio Tommy e lui – 8 anni fa campione junior di Parigi – non ha fallito l’appuntamento con la semifinale degli Australian Open. Al debutto sulla Rod Laver Arena contro Shelton è andato tutto liscio, nonostante qualche difficoltà nel convertire le palle break. Il 25enne nato nel New Jersey se ne è procurate 15 ma ne ha convertite appena 3. “Ben ha battuto benissimo nei punti e nei momenti importanti, non riuscivo mai a capire dove avrebbe servito”, ha raccontato Tommy Paul.
Preso dalla frustrazione, ad un certo punto Tommy ha chiesto lumi al suo angolo. Dato il baccano, per farsi capire dal suo team ha gridato: “Doveee!?! Dove devo andare?!?”. Il dialogo è proseguito con un sequel gustoso a beneficio di chi era a casa e di chi ha alzato lo sguardo verso il maxi-schermo dello stadio. Le telecamere hanno infatti pescato Brad Stine, ex coach di Jim Courier e adesso guida tecnica di Tommy Paul, rispondere con un gesto eloquente: una mano in verticale e l’altra in perpendicolare. “Sulla T, vai sulla T!”. L’indicazione di Stine era stata chiara: di fronte a quell’ennesima palla break, Shelton avrebbe servito al centro e Tommy Paul si sarebbe dovuto preparare a rispondere lì.
Tommy Paul demande à son coach où va servir Ben Shelton. Brad Stine lui indique le T avec les mains mais Shelton le voit, sert extérieur et rigole. ??
— Tennis Legend (@TennisLegende) January 25, 2023
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Mercoledì 25 gennaio 2023, insomma, anche il più distratto degli spettatori della Rod Laver arena ha scoperto l’acqua calda: durante i match, i tennisti interagiscono col loro box. Magari variano i modi e i toni, la frequenza e l’oggetto del dialogo, i codici utilizzati e la concentrazione di termini vietati ai minori, ma giocatori e allenatori parlano in continuazione.
Non c’è norma o maternità che tengano. Il minimo sindacale sono i pugnetti da parte dell’atleta, la cui atavica solitudine impone la ricerca di uno specchio e di un sostegno, di una conferma o di una carica. Dall’altra parte, nove volte su dieci i coach si limitano a ribattere con quel che direbbe qualsiasi tifoso da bar. Il “Dai, su, adesso” vince per un’incollatura sul classico “Un punto alla volta”. Entrambe le frasi sono buone per tutte le stagioni e vanno su tutto, come il nero.
Messo così potrebbe sembrare il lavoro più semplice del mondo, quello del coach. In realtà, i soggetti in questione devono fare i conti con i risvolti umorali e psicologici della vicenda. Ci sono atleti cui servono poche e semplici indicazioni pre-partita e che in corso d’opera hanno bisogno di banali incitamenti. Altrimenti – per dirla a modo loro – si incartano. In quel caso, all’allenatore spetta il compito di tranquillizzare o di motivare il tennista, in qualche caso di fare da signor Malaussene, di beccarsi i rimbrotti e assumersi la responsabilità degli errori.
D’altra parte, non è che ad ogni 15 si possa o si debba dare indicazioni tattiche, mica sono tutti Apostolos Tsitsipas. Il quale di indicazioni ne dà talmente tante che Stefanos a volte vorrebbe travestirsi da Daniil Medvedev e chiedere all’arbitro di turno di allontanarlo dal campo. Cosa peraltro fatta da Bernard Tomic nel confronti del suo padre-coach qualche anno fa a Miami.
Ci sono allenatori che se potessero comunicherebbero col loro giocatore ad ogni punto e giocatori che pendono dalle labbra del loro angolo. Ma ci sono aspetti pratici che impediscono una comunicazione costante e lineare: quando l’ATP annunciò che il coaching sarebbe stato sdoganato e sarebbe diventato parte integrante dello spettacolo delle Next Gen Finals di Milano, i telecronisti esultarono. Un dialogo chiaro e in mondovisione tra tennisti e allenatori avrebbe arricchito la narrazione e avrebbe aiutato i commentatori a non speculare in base alle proprie supposizioni e deduzioni, ma affidandosi ad un testo scritto alla luce del sole. Oltre ad aggiungere quella componente voyeuristica che avrebbe reso appetibili persino i cambi campo.
L’esperimento, che pure in parte riuscì, non fu replicato per vari motivi. Innanzitutto, la comunicazione in cuffia imponeva l’uso della lingua inglese – il che rendeva innaturale 2 dialoghi su 3 (indimenticabile la scena del giovane francese Ugo Humbert che prende in giro l’allenatore per il suo inglese) – poi perché nessun team scopre davvero le carte dopo le partite, figuriamoci durante. E infine perché 9 volte su 10 il contenuto dei dialoghi tra tennisti e coach è arricchito da termini vietati ai minori.
Quelli che spesso dalla TV sembrano sfoghi contro sé stessi, urlacci contro il mondo o al limite esultanze smodate, molto spesso sono esplosioni di nervi che contengono espressioni rabbiose che non troverebbero asilo sulla Treccani. E se in molti casi i destinatari sono gli avversari o il pubblico, più spesso volte l’oggetto dell’imprecazione è proprio l’allenatore.
C’è chi subisce (come Apostolos, forse consapevole che se le cerca e che in parte se le merita), chi fa orecchie da mercante (per lezioni sullo zen e l’arte di mantenere l’autocontrollo telefonare a Fernando Vicente, coach di Andrey Rublev), chi ogni lustro sbotta a sua volta (vedi Gilles Cervara, che un paio di volte ha lasciato le tribune e Medvedev al suo destino dopo essersi beccato l’ennesimo insulto) e chi rivela i segreti di Stato, come quando Patrick Mouratoglu sconfessò pubblicamente Serena Williams, ammettendo che sì, quello nella finale di New York nel 2018 contro Naomi Osaka era effettivamente coaching.
L’obiettivo comune, del resto, è vincere. Ma la ricetta dipende dagli ingredienti e dallo chef. Qualche anno fa, durante un match di qualificazione degli Australian Open, Matteo Berrettini non riusciva a sfondare il muro di Denis Kudla. Irritato dall’andamento del match, si sfogò verso il suo angolo, gridando: “Questo qui non sbaglia mai!!!”. Conoscendo il suo pollo, Vincenzo Santopadre guardò il suo figlioccio, si strinse nelle spalle e rispose a modo suo, nell’unico modo in quel momento possibile. “Eh”, disse. Un invito al fare i conti con la realtà e a cercare altre strade.
Matteo sorrise e quell’anno esordì nel tabellone principale di Melbourne. Dove, proprio ieri, persino Novak Djokovic si è rivolto al suo angolo per indicazioni. Nonostante i 21 major, nonostante i 9 titoli australiani, nonostante i 25 match consecutivamente vinti sulla Rod Laver arena e nonostante il match contro Rublev fosse sotto controllo, il serbo ha sentito il bisogno di un’ulteriore indicazione su come gestire il bombardamento del moscovita.
“Più top spin col dritto”, la risposta di Goran Ivanisevic. Sorprendente la richiesta, sorprendente ili fatto che nello scambio successivo Nole abbia giocato 6 colpi, tutti di diritto, tutti eseguendo pedissequamente le indicazioni del suo allenatore, tutti effettuati con un top spin più accentuato, come se avesse davvero avuto bisogno di quel suggerimento.
O come se avesse inconsciamente voluto testare la capacità del suo coach di leggere la partita e di tirare fuori dalla fondina un’altra arma con la quale far male all’avversario. Meno margine di rischio, colpi meno piatti per evitare di dare a Rublev la possibilità di appoggiarsi alla sua velocità, e il gioco era fatto: Djokovic quel punto l’ha vinto. E due ore dopo era sotto la doccia.
Ovviamente non va sempre così. Anzi, per la cronaca, dopo che il maxi-schermo ha svelato l’indicazione del coach di Tommy Paul, Ben Shelton non ha tirato sulla "T", ma "ad uscire". Servizio vincente e altra palla break annullata. Paul non l’ha presa bene, e ha mandato a quel paese Brad Stine. Anche per questo è lo sport del diavolo.
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