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Djokovic, e se il sipario calasse proprio a Parigi?

La medaglia d'oro vinta Parigi era l'unico successo che ancora mancava al serbo. Ottenerlo ha richiesto quanto mai profuso da lui in carriera. Ragioni e riflessioni su un momento che altri vagheggiano, che in molti inseguono e che lui è invece è riuscito a costruirsi da sé

di | 05 agosto 2024

Novak Djokovic (Getty Images)

Novak Djokovic (Getty Images)

Ora che tutto si è compiuto, adesso che anche l'ultimo alloro - quello che mancava - è stato aggiunto alla sua bacheca, Novak Djokovic può finalmente decidere di appendere la racchetta al chiodo, far ritorno a casa e iniziare a costruirsi il futuro che vorrà. Voce dei giocatori sul circuito, conferenziere in giro per il mondo, avviare una carriera politica: le opzioni non mancano. Non ha che da scegliere. 

Giunto a trentasette anni, reduce da un Roland Garros che era costato lui un ginocchio e da una finale persa a Wimbledon, il serbo era atterrato per la seconda volta in stagione a Parigi vivendo in prima persona e per la prima volta in carriera il brivido dell'ultima spiaggia. All or nothing. Tutto o niente. Aveva solo una chance Nole, l'ultima, per provare a vincere quella medaglia d'oro già sfuggitagli in passato con cui chiudere il Career Golden Slam, unico anello mancante alla sua collana di trionfi. 

Ci è arrivato in precarie condizioni fisiche, allarmato da un ulteriore scricchiolio nel corso del torneo che aveva fatto temere il peggio, e in finale ha affrontato quel Carlos Alcaraz, più giovane di lui di sedici anni, da cui poche settimane prima aveva perso nettamente a Londra. "Sarà una partita diversa da quella giocata a Wimbledon", aveva però avvertito Djokovic alla vigilia con gli occhi persi nel vuoto, come un uomo in missione concentrato sull'orizzonte e non su quegli ostacoli che di volta in volta si frapponevano tra lui e quella linea laggiù in fondo. 

Non è mai solo sport, ed è una vittoria, la sua, che trascende il tennis attestandosi come un qualcosa capace di definire e ispirare ben oltre le quattro righe di gesso dello Chatrier. Era un'ultima spiaggia, ma era anche la prima volta che il serbo giungeva a un appuntamento così delicato senza aver ancora vinto nulla in stagione e circondato da incognite difficili da dissipare e rilanciate da una generazione di giovani affamati desiderosi di accelerarne la data di scadenza. 

La formula al meglio dei tre set lo ha di certo aiutato, ma tre ore di partita, due tie-break, e una girandola di occasioni costruite e viste sfumare, rischi piovutigli addosso e rispediti al mittente, raccontano di un match giocato sul filo del rasoio, un eterno presente vissuto senza alcun calo psicologico. E in cui, in prossimità del traguardo, è riuscito ad alzare ulteriormente il suo livello toccando vette che alla lunga hanno finito con lo scoraggiare il suo giovane e vigoroso rivale. 

Già detentore di quasi ogni record, nessun successo ha richiesto a Djokovic uno sforzo simile a quello profuso in questa settimane di torneo olimpico. Fame, agonismo, amore per la competizione sono il fuoco che ancora lo anima; ma di fronte a un'impresa simile, voltandosi a guardare la strada fatta dalla Belgrado della sua infanzia alla Parigi in cui si è consacrato, e a quella che ancora l'attende e che lui conosce ormai a memoria, è lecito supporre che per un attimo il serbo abbia sentito quella vampa rimpicciolirsi a flebile fiammella. 

Un momento. Un istante. Quello che in tanti faticano ad avvertire e che continuano a rinviare, fiduciosi di avere ancora in sé risorse e forza per un ultimo bagno di luce. Salvo poi accorgersi che quell'immagine di sé proiettata dalla fantasia è ormai un'ombra troppo distante da inseguire. Un soffio, un'epifania, una rivelazione. Effimera e per questo eterna. Come solo certe sere d'estate sanno essere, quando tutto è ancora intatto e intatto può ancora restare.

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