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Farewell, Andy

Rinviato quando tutti lo invocavano, rincorso come si va incontro a qualcosa che ormai non fa più paura, lo scozzese ha giocato il suo ultimo match in carriera al fianco del connazionale Evans facendo così calare il sipario su una carriera contraddistinta da gioie e dolore, discese agli inferi e resurrezioni inattese

di | 01 agosto 2024

Andy Murray (Getty Images)

Andy Murray (Getty Images)

Alla fine ci è riuscito. Dove voleva lui, quando voleva lui. Non era scontato. Perché sul come, anche altri hanno voluto dire la loro. In primis il tennis: sport che si premura di stravolgere destini, e si diverte a far riavvolgere e srotolare striscioni preparati per congedi in costante divenire, in anticipo o in differita sullo stupore altrui. E poi la sfortuna. Una maledizione, all'inizio; un'abitudine, strada facendo, compagna di viaggio a cui far posto, ormai certi che non ci abbandonerà fino alla fine del viaggio. 

Sconfitto in coppia -62, 64 - con Dan Evans dal duo americano Fritz/Paul, Andy Murray ha infine mandato agli archivi l'ultimo atto della sua carriera. Per ben sette volte era riuscito a rinviarlo nei due match giocati in precedenza in questo torneo olimpico: sette match point annullati, sette rintocchi a ricordarti che l'ora è arrivata soffocati rimandando indietro le lancette del tempo regalandosi altro tempo per giocare ancora un po'. 

"Non penso che giocherò oltre l'estate", disse sir Andy in avvio di stagione. Fisico logoro, risultati assenti. Per quanto intatti fossero ancora agonismo e volontà, troppo il dolore. Meglio chiuderla lì, stringendo denti e bulloni per quell'ultimo rettilineo che ancora mancava da percorrere, una passerella di campi verdi -Wimbledon - e rossi - Parigi 2024 - e consegnare la chiusura di un cerchio alla memoria dei cinque cerchi. E invece ecco la sfortuna tornare a metterci lo zampino. Prima una brutta storta alla caviglia rimediata a Miami ad estrometterlo dallo swing sul rosso, e poi l'infortunio alla schiena (ancora lei) al Queen's con conseguente operazione e corsa contro il tempo per provare a darsi ancora una chance, l'ultima, per calcare i campi verdi di SW19 - singolare o doppio che sia. 

E così, ecco quel dolce addio trasformarsi in un lungo calvario fatto di dolore e incertezza, il fisico a far la conta dei giorni ancora a disposizione, il cuore sempre più gonfio nella muta certezza di veder stravolti i propri piani e di non potersi congedare come si desiderava. E' lo sport, e va così. Se c'è però una cosa a cui Andy Murray ci ha abituato è il modo in cui si decide di reagire alle avversità. Atterrato nel mondo del tennis quando questo era alle prese con una rivalità a tre - Federer, Nadal, Djokovic - che ne avrebbe infine riscritto numeri e storia, Murray ha saputo farsi largo tra loro non cedendo alla facile tentazione di racimolare briciole spacciandole poi come gran bottino. 

Tre Grand Slam, primo britannico a vincere Wimbledon dopo 77 anni d'attesa, un titolo alle ATP Finals, numero uno di fine stagione nel 2016 e vincitore di due ori olimpici, i numeri collezionati da sir Andy in carriera sono numeri che pochi possono vantare. E che acquisiscono ancor più valore se calati nel tempo in cui è toccato lui in sorte di giocare. Trovare soluzioni, strade, risposte. Arrendersi non è mai stata un'opzione. Anche a pochi mesi dal congedo: "Tornerò", scrisse, dopo essersi incrinato caviglia e legamenti a Miami, "fosse anche con una sola anca e senza più alcun legamento, tornerò". Con buona pace dei tanti detrattori che invocavano invece un ritiro lontano da ogni dolore e quanto più vicino possibile all'immagine da lui costruita negli anni. 

Ma cos'è un'immagine, se non una foto destinata a cambiare nel tempo? E cos'è il tennis, se non una ricerca costante all'insegna dell'adattamento e delle circostanze di giornata? Sapervi far fronte, reagire e trovare le risposte migliori. Vincere, provare a farlo, con quel che si ha. E questo Andy Murray ha fatto, dacché nemmeno ventenne si affacciò la prima volta sul circuito, fino ai tornei Challenger in cui è sceso in campo in questo suo finale di carriera nel tentativo di recuperare condizione, lustro e classifica. Nessuna vergogna, nessuna paura di scalfire nessuna eredità. Solo l'intima convinzione di voler restare fedele a un codice e a dei valori che ne hanno informato la carriera. Gli unici a cui sente di dover dare risposte adeguate. "Pain is temporary, pride is permanent" ("Il dolore è passeggero, l'orgoglio perenne") , dicono gli inglesi. Come te, Andy. Proprio come te.


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