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La disposizione dell’ITIA fa discutere ma, al di là dei difensori della privacy ancora non c’è la risposta dei puri a oltranza e dei difensori delle istituzioni. Perché si è arrivati a questo drastico diktat?
di Vincenzo Martucci | 24 aprile 2025
Il doping è sempre più un rebus. L’antidoping di più. Soprattutto per i giocatori. Il caso-Sinner ha complicato ulteriormente la situazione: possibile che proprio il numero 1, così ligio, così attento e corretto sia rimasto coinvolto e abbia dovuto subire lo strazio dei dubbi, delle diatribe legali, del sospetto, delle polemiche, fino addirittura del compromesso, dell’accordo, dell’accettazione del male minore, cioé dei famosi 3 mesi di stop? Possibile che la responsabilità oggettiva sia così imparabile davanti alle mille variabili degli integratori, dei collaboratori, dei medicinali?
Oggi, da Aryna Sabalenka ad Andrey Rublev, è un continuo grido di dolore fra allarmi, perplessità e paure. Nessuno si sente al sicuro e vive il momento con difficoltà ad angoscia, e tutti, anche mettendola sull’ironia, come Matteo Berrettini, puntano il dito sui controlli, spesso invasivi, drastici, folli. Come raccontavano già in passato i primattori Serena Williams e Roger Federer che dovevano convivere con sveglie notturne, intrusioni casalinghe e anche clamoroso e pericolosi malintesi, con appuntamenti impossibili con i controllori. Ma, al di là delle legittime proteste, c’è da chiarire e validare la funzione primaria di chi è chiamato a legittimare lo sport in difesa, “in primis”, del buono, di chi svolge onorevolmente e onestamente il proprio lavoro. In contrasto con “l’altro”, il cattivo, sempre più ricco e quindi agguerrito. In quest’ottica ha molto colpito l’ultima disposizione dell’ITIA, il primo baluardo della correttezza degli atleti, l’Unità di Integrità nel Tennis responsabile dell'indagine non solo antidoping ma anche sulle partite truccate nel tennis. Altra piaga che emerge nei tornei Challenger in modo eclatante.
Andrey Rublev (Getty Images)
“Questo è… abbastanza straordinario”, postava Jon Wertheim, acuto cronista statunitense, in un post il 24 settembre 2022, commentando il pianto spontaneo e le mani unite di Rafa Nadal e Roger Federer all’addio del Magnifico alla Laver Cup. “Questo è… straordinario”, ha stigmatizzato in un post rivelando il 18 aprile la circolare ITIA che si presta come davvero sconcertante.
“L’ITIA e in precedenza l’ITF hanno cercato in tutti i modi di garantire che ci fosse un ammissibile ritardo all’antidoping per le docce dopo i match, in particolare quando non fare la doccia potrebbe avere un effetto dannoso sulla salute e il benessere di un giocatore. Ma questo non è un diritto: per questo l’ITIA chiede gentilmente che, in quel momento, i giocatori rispettino l’obbligo di rimanere costantemente sotto gli occhi dell’accompagnatore. Se un giocatore non si sente a suo agio nell’essere osservato mentre si fa la doccia, suggeriamo di valutare se sia necessaria una doccia prima di sottoporsi a un controllo antidoping. La non osservanza di tale obbligo sarà presa molto seriamente dall’ITIA”.
Questa disposizione ha lasciato interdetti tanti adatti ai lavori. A cominciare da Mark Petchey, ex pro britannico, sempre molto disponibile e quindi molto gettonato dai media del suo paese, che è l’allenatore del momento della volubile Emma Raducanu. Ma siamo convinti che sia proprio così? Perché mai l’ITIA è dovuta intervenire con una circolare così palese?
Questo intervento non si può piuttosto tradurre in modo opposto, e quindi come un estremo, ennesimo, tentativo di salvaguardia dei diritti dei puri, dopo aver dato una stretta ai chiacchieratissimi “toilet break” tattici, quelle fughe dal campo diventate ormai sistematiche nel loro intento tattico, che facevano storcere il naso a tanti, a cominciare dagli spettatori, e magari trasfiguravano psicologicamente il corso dei match? La domanda vera forse sarebbe: perché la maggioranza silenziosa è sempre così silenziosa? Come mai al di là delle pur legittime richieste di “privacy” nessuna, ma proprio nessuna voce si alza per dire: “A me sta bene così, non ho niente da nascondere e mi sento più sicuro anche per il comportamento di tutti i colleghi?”. Cercasi disperatamente una risposta da un atleta.
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