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Cultura e costume

Tutti dentro la bolla: ma che New York è?

La città non è più la stessa. Non per i giocatori: che lasciano Manhattan e si trasferiscono nella bolla di Long Island, più vicino ad aeroporto e campi. Non per le persone: segnate dalla pandemia e dalle divisioni politiche. Non per il focus sportivo degli americani, condiviso con la bolla dei Playoff NBA fuori stagione

di | 27 agosto 2020

Il Player Handbook è un libricino da 66 pagine alto e stretto. È il prontuario che verrà distribuito ai giocatori prima dell’inizio degli Us Open: dentro ci sono tutte le informazioni possibili, dalle più banali (“i match si giocano tre set su cinque, con tie-break”) a quelle più specifiche (“il ristornate per i giocatori si trova al secondo piano dell’Arthur Ashe Stadium, accanto alla Player Lounge”, oppure “ogni persona accreditata dovrà comunicare per tempo all’organizzazione se viaggia accompagnato con un animale da compagnia”).

VIAGGIO FOTOGRAFICO A NEW YORK: LE IMMAGINI DALLA CITTÀ DELLA BOLLA

A pagina 24 c’è tutto quel che riguarda la permanenza dei giocatori. Gli hotel, insomma. Non c’è bisogno di questo punto di vista molto particolare per comprendere che quello che sta per sorgere dietro la Statua della Libertà sarà uno Us Open molto diverso, però aiuta a ricordarlo. Perché palesa quanto questo primo Major giocato nell’Era della pandemia scompagini tutto. Non solo per la ormai famigerata bolla, di cui ormai si sa tutto (per la teoria…) e niente (per la pratica…), ma perfino per tutto ciò che dalla bolla resta escluso, fuori dal suo perimetro.

La copertina del Player Handbook 2020 degli Us Open

Torniamo a pagina 24: l’hotel principale riservato ai giocatori è il The Long Island Marriott. Dall’altra parte esatta della bussola rispetto a dove stavano di solito, fino allo scorso anno. Arrivavano, dormivano, vivevano (match e allenamenti a parte) lo Us Open nella selva di grattacieli di Manhattan; partivano la mattina con la macchina della transportation, dribblavano i palazzoni, schivavano il traffico vorticoso di Madison Avenue e della Quinta per infilarsi nel Mid Town Tunnel oppure sul Queensboro Bridge, direzione Est.

Adesso prenderanno la navetta al 101 di James Doolittle Boulevard, andranno verso Ovest, con il sole del mattino alle spalle sulla Highway 495 che taglia orizzontalmente tutta la penisola allungata dall’Atlantico ai bordi di Manhattan, passando per Long Island e il Queens.
In condizioni di traffico non congestionato, da lì, ci vogliono 25 minuti per arrivare al Flushing Meadows Corona Park (nessun riferimento, si è sempre chiamato anche Corona, solo che nessuno fino a ora l’aveva mai praticamente notato…). Niente a che vedere con l’ora abbondante necessaria da Manhattan. Pure l’aeroporto è più vicino a Long Island: motivo per cui, sempre dalle pagine del Player Handbook, è “consigliatissimo” l’atterraggio al JFK International.

Per lasciare l’hotel (in realtà ce n’è un altro a disposizione, il Garden City, in caso di overbooking, oltre agli appartamenti privati comunque filtrati dalla USTA per rispettare i protocolli), la navetta dell’organizzazione parte ogni quarto d’ora, dalle 6.30 del mattino alle 5 del pomeriggio.
Il cuore pulsante dello Slam made in USA resta lo stesso, un parco da 500 ettari, il secondo più grande della città, dove è incastonato il Billie Jean King National Tennis Center.
Il pubblico, che quest’anno non ci sarà, ci arrivava con la metro, la linea 7, quella lillà che i newyorchesi usano anche per andare a vedere i Mets allo Shea Stadium, tempio (rimodernato) del baseball.

Vivranno nella bolla, i protagonisti della racchetta, è vero: ma non sarà facile estraniarsi da tutto quello che di diverso, anormale, anomalo, mai-visto-prima ruoterà attorno a loro.
Dovranno abituarsi a una New York diversa non solo per latitudini (Long Island dista da Manhattan quasi 50 km) e abitudini, ma anche per umore, sensazioni, suggestioni.
La Grande Mela è stata la prima grande città statunitense a scontrarsi con le truppe del Virus. Si è compattata dietro le direttive del suo “generale”, il governatore Andrew Cuomo, e ha risposto meglio di altri Stati.

120 mila gli appartamenti messi in affitto a New York tra giugno e luglio, una fuga testimoniata proprio dal +26% degli alloggi rimasti vuoti rispetto al 2019

Ma è stata al fronte, ha dovuto sopportare le immagini delle fosse comuni ad Hart Island e porta indelebili i segni della battaglia. Oltre alle quasi 25 mila persone che il virus ha ucciso fin qui, adesso NYC fa i conti con un tasso di disoccupazione pari al 20%, il doppio del 2008, un dato tanto alto da far rievocare gli spettri della Grande Depressione. Qualcuno scappa: ci sono 120 mila appartamenti rimasti sfitti soltanto nei mesi di giugno e luglio, un incremento complessivo del 26% rispetto al 2019.

Stefano Versace è un imprenditore italiano, lavora nel campo della finanza applicata all’economia reale e negli Stati Uniti ha creato una catena di gelaterie di grande successo. Nei giorni del post-lockdown ha scritto sui suoi seguitissimi profili social che New York è morta. Almeno rispetto a quella che era prima.
“Leggendo varie analisi tra cui quella di un autore teatrale (James Altucher) a cui mi sono ispirato e ripresa anche da varie testate online (tra cui NY post) e confrontandomi con economisti americani, dopo aver analizzato report di McKinsey, sembra che quella NYC non ci sarà più”, si legge nel suo post.

A far da corollario alle parole, le foto desolanti delle Avenue deserte. Traffico quasi azzerato, marciapiedi vuoti. Come i seggiolini degli stadi e delle arene sportive. New York ha due squadre di Baseball, i Mets e gli Yankees, un’istituzione culturale ancor prima che sportiva. Lo Yankee Stadium, nel cuore del Bronx, è vuoto a ogni partita. Dietro al battitore ci sono i cartonati con le sembianze dei tifosi, faccioni plastificati e sorridenti che riempiono soltanto un vuoto materiale.

La città che non dorme mai ha anche due squadre di basket, lo sport che di questi tempi solitamente si riposa e prepara la nuova stagione per ottobre.
Tolti i Knicks, lo squadrone nobile,  decaduto e declassato a barzelletta NBA, i Brooklyn Nets sono ai Playoff. Che in via del tutto eccezionale si giocano proprio adesso, andando a fare concorrenza - televisiva e mediatica - nel mercato statunitense e globale proprio agli Us Open.
Il tennis di solito, da quel punto di vista, si deve giocare punti di share con le prime partite del Football, quello NFL. Questa volta sull’altro canale ci sono LeBron James, Giannis e Kawhi Leonard. Anche questo qualcosa sposta.

L'Ospedale da campo allestito all'interno del Billie Jean King National Tennis Center

Senza contare che dove si sta tornando a giocare a tennis, fino a pochi mesi fa c’erano teli e divisori - lugubremente neri - che segnavano i confini degli ospedali da campo pronti ad affrontare l’emergenza sanitaria. La sola cosa che assomigliava sinistramente al tennis per lunghi mesi è stato lo scambio durissimo sul lungolinea con Washington, dove il presidente Trump ha innescato una vera e propria battaglia politica e dialettica con Cuomo.
Poi dopo oltre 50 giorni di serrata generale è stata la volta della fase 3, quella della riapertura graduale, che ha riguardato anche i numerosi tennis club e campi pubblici cittadini: dal Bronx agli Hamptons è stata la prima volta che in città è tornata qualche racchetta a far risuonare il toc ovattato delle palline nei parchi.

L’America divisa e polarizzata tra bianchi e afro-americani, tra repubblicani e democratici, tra discepoli laici della mascherina e negazionisti, accoglie il suo Slam in un’atmosfera carica di tensione. Lo fa nei giorni che seguono la Convention democratica che ha ufficializzato Joe Biden quale sfidante di Donald Trump.
Nelle strade il grido di protesta nero (e non solo) s’è cristallizzato sotto forma di lettere cubitali - Black Lives Matter - in lungo e in largo per tutto il paese.
La New York che ha partorito la bolla non è più la stessa di prima, ma per lo meno - anche con il tennis - sta provando a rialzarsi. Bentornata New York.

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