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Campioni internazionali

Goolagong, grinta e grazia oltre i pregiudizi

“Sogna, credi, impara, ottieni”. Il motto di Evonne Goolagong, prima aborigena a vincere uno Slam, si rispecchia nel peculiare percorso di Ashleigh Barty, anche lei di ascendenza autoctona, fino al numero 1 del mondo.

di | 28 giugno 2019

Evonne Goolagong

“Evonne era come una pantera se paragonata a me”, diceva Billie Jean King. La chiamavano “Sunshine Supergirl”, anche prima che vincesse due Wimbledon, quattro Australian Open e un Roland Garros in singolare. Giocava un rovescio che ricordava Ken Rosewall e in campo si muoveva con la grazia di una ballerina. Ma quel che colpiva era il suo desiderio di arrivare comunque su ogni palla. Goolagong, con quel cognome così particolare che secondo un antropologo del Museo Nazionale Australiano significherebbe “muso di canguro”, è la terza di otto figli dell'unica famiglia aborigena di Barellan. È un paesino nel New South Wales, 900 abitanti, buoi e poco altro da segnalare, 400 chilometri a ovest di Sydney. Impara con una racchetta di legno sul muro di casa, la mamma le realizza i vestiti tagliando le lenzuola di casa. Già da piccola sogna Wimbledon. Legge una storia a fumetti, Princess Magazine, su una ragazza condotta sul magico centrale dei Championships che inevitabilmente alla fine vince. Evonne non subisce episodi di razzismo a scuola, ma cresce con la paura degli assistenti sociali: sua madre le ordina di nascondersi ogni volta che una macchina passa davanti a casa. Fino agli anni Sessanta, infatti, almeno centomila bambini di sangue misto, da uno su tre a uno su dieci a seconda degli Stati, vengono tolti alle famiglie, spediti in centri governativi o affidati a famiglie bianche. È la “Generazione Rubata”, di cui l'Australia viene a sapere all'inizio degli anni Ottanta.

La prima volta a Wimbledon

A 14 anni si trasferisce a Sydney. Va a vivere con la famiglia di Vic Edwards, che prende molto seriamente il compito di guidare la scuola tennis fondata dal padre nel 1921. Sotto l'insegna con la scritta “veni, vidi, vici” sono passati da giovani anche Bob Hewitt, Fred Stolle, Martin Mulligan (che giocherà poi per l'Italia). Il sogno di arrivare a Wimbledon lo realizza a 18 anni, nel 1970. L'emozione di vedere i campi, ancora senza rete, dopo un cocktail party prima del torneo è forte. Entrare sul Centrale per il debutto ai Championships ancora di più. “La Bella Evonne”, come la chiamano i giornali, è spaventata, vuole solo andarsene il più in fretta possibile. Un anno dopo cambia tutto. Vince il Roland Garros in finale su Helene Gourlay. Per Martina Navratilova, Goolagong squaderna una versione molto personale del serve and volley: la chiama “passeggiata e volée”. Pochi mesi dopo trionfa anche a Wimbledon, 6-4 6-1 in finale su Margaret Court. “Mi sentivo sulla luna” racconta. Finalmente Barellan può essere conosciuta per qualcos'altro, oltre alla carestia di grano del 1941.

Pregiudizi e politica

Edwards, ha raccontato Goolagong alla CNN, l'ha schermata dai pregiudizi. “Mi ha insegnato a non credere in quello che leggo ma solo in me stessa. Mi sono sempre vista solo come una giocatrice. Mi ha protetto dalla pubblicità e dalla politica”. Anche quando decide di andare a giocare in Sudafrica nonostante l'apartheid. “Sono fiera della mia razza, ma non voglio pensare a questo tutto il tempo”, dice. Tuttavia, si legge in un articolo del New York Times del 1971, “è un simbolo, che le piaccia o no. In Australia il romanziere David Marlin ha definito Evonne e il pugile Lionel Rose 'negri da esibizione'”. Goolagong ha sempre preferito far parlare in campo. Realizza davvero il senso dell'identità aborigena, ha raccontato, solo negli anni Novanta, tornata in Australia dopo aver vissuto vent'anni negli Usa. In quei giorni si è sentita, forse per la prima volta, completamente a casa.

Le grandi rivali

In casa ha vinto quattro Australian Open di fila. Nel 1974 supera in finale Chris Evert 7-6 4-6 6-0. “Nel terzo set sentivo che non avrei potuto fare niente di sbagliato”, ha raccontato. Domina poi Martina Navratilova 6-3 6-2, Renata Tomanova 6-2 6-2, Helene Gourlay 6-3 6-0. Solo altre quattro giocatrici hanno trionfato tre volte di fila nella storia del torneo: Margaret Court, Steffi Graf, Monica Seles e Martina Hingis. Come la svizzera, Goolagong ha giocato sei finali consecutive, come Graf ha completato tre successi senza perdere un set. Le manca solo una vittoria allo Us Open per completare il Career Grand Slam. A New York perde quattro finali consecutive tra il 1973 e il 1976, battuta da tre delle più grandi giocatrici di tutti i tempi. Nelle prime due finali si arrende a Margaret Court, nel 1974 a Billie Jean King, che rimonta da 0-3 nel terzo set nel 1974. “E' stata una partita straordinaria”, ha raccontato a Steve Flink di Tennis Channel. “Ricordo che a un certo punto, dopo uno scambio lungo, mi sono fermata a pensare: 'L'abbiamo fatto davvero?' Non potevo credere che avevamo giocato un punto così bello. Avevo la pelle d'oca. A quel punto non mi importava tanto vincere o perdere, è stata una delle migliori partite che abbia mai giocato”. Sulla terra verde a Forest Hills, poi, perde due volte contro Chris Evert. Nel 1976, incinta, vince solo tre game. Evert l'ha sconfitta 26 volte su 38, ma Goolagong si è concessa un'eccezione speciale nel 1980, in finale a Wimbledon. Torna a trionfare a nove anni dalla prima volta, è la prima mamma a vincere il titolo dai tempi di Dorothea Lambers Chambers.

Una campionessa diversa

In campo sapeva fare praticamente tutto. Mostrava uno dei più bei rovesci del circuito, lo giocava a una mano, topspin o slice non faceva differenza. Non così costante di dritto, poteva essere attaccata sulla seconda con una risposta aggressiva. Ma quando metteva in campo la prima, metterla in difficoltà era quasi impossibile. Batteva e scendeva a rete, forte di una volée di rovescio degna di Martina Navratilova. Nel 1976 vince sette titoli, compresi i Virginia Slim Championships, le WTA Finals, che allora si giocano ad aprile. In finale supera Chris Evert per la terza volta in stagione e completa la ventesima vittoria consecutiva. Diventa soprattutto la nuova numero 1 del mondo, anche se la WTA per anni ne perde le prove. Non compare infatti nella lista delle giocatrici arrivate in vetta al ranking nelle media guide fino al 2007, quando John Dolan, che allora lavorava per la WTA e oggi è capo della comunicazione della Lawn Tennis Association, indaga a partire da un riferimento nell'autobiografia della “Sunshine Supergirl”. E corregge l'errore. Non era solo il suo modo di colpire con istintiva creatività, o lo spirito competitivo spesso sottovalutato, a renderla diversa. Non sono i 13 Slam in 26 finali tra singolo, doppio, doppio misto; non sono i 72 titoli complessivi e le 704 vittorie a fronte di 165 sconfitte in singolare. È il modo di stare in campo. “Semplicemente mi piaceva giocare e fare le cose perfettamente”, ha detto a Steve Flink. “In campo sentivo una calma determinazione. Non mostravo molto le mie emozioni, non mi piacevano quelli che mettevano su uno show, che gridavano, che insultavano tutti. A me non piaceva attirare l'attenzione su di me, ero troppo occupata a divertirmi”.

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