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Il 29 aprile è stato un compleanno rotondo per Andre Agassi, il campione che ha rivoluzionato per sempre il tennis stravolgendone la velocità e l’immagine. Ha portato gli abiti della strada nei club, lo star system nel circuito e contemporaneamente ha conquistato tutti i grandi titoli del tennis e condiviso i veri valori sportivi della racchetta. Nel 2005 ha passato il testimone a Federer…
di Enzo Anderloni | 28 aprile 2020
IL COMPLEANNO
Andre Agassi: 50. Giocatore americano, nato a Las Vegas il 29 aprile del 1970…. No, non si può scrivere la fredda scheda di un campione, di un personaggio così per celebrare il suo 50° compleanno…
E forse anche ridipingerne oggi un ritratto è inutile. Ci si va ad aggiungere ai mille ritratti che sono stati fatti di lui, quando giocava (io stesso, scusate il coinvolgimento personale ma la vicenda mi ha accompagnato a lungo nella vita, ne avrò scritti almeno tre o quattro, lunghissimi, sulla rivista Il Tennis Italiano per la quale lavoravo) e poi quando ha smesso, in virtù delle sue storie, di una vita non usuale.
Inoltre c’è da dire che il ritratto migliore Andre Agassi se l’è allestito da sé. E’ la bellissima autobiografia scritta con la penna di J.R. Moehringer che, con il titolo di “Open”, è diventato uno dei libri più letti del 2012. E dal 2012 in poi. Anche da chi non gioca a tennis.
Così per provare a fare qualcosa di diverso ma al tempo stesso a far capire perché è bello festeggiare il compleanno tondo tondo di questo signore oggi molto più rotondo di quando l’abbiamo conosciuto come tennista. Un cinquantenne con la testa tonda, rasata a zero, così diversa da quella con lunga chioma di capelli da rocker, pure tinti di biondo, che ci ha calamitato, il giorno che l’abbiamo visto dirigersi per uno dei campi secondari del parco del Foro Italico per una sfida del secondo turno degli allora Internazionali d’Italia, prima dell’epoca d’oro BNL, contro lo svedese Jan Gunnarson.
Era il 1988. Agassi aveva fatto una prima apparizione l’anno precedente ma era ancora solo un tipetto promettente. Nel 1988 era già un idolo controcorrente. A 18 anni appena fatti era n.12 del mondo e aveva la fama di ragazzotto americano “provinciale”, poco propenso a lasciare gli Usa per via della difficoltà a staccarsi dagli Hamburger di McDonald’s (il primo McDonald’s a Roma era stato aperto solo un paio d’anni prima).
In più giocava con un paio di jeans tagliati corti e questo a Roma, dove i club storici ti facevano scendere in campo solo vestito di bianco, era ancora più d’impatto che la sua chioma, lunghissima e biondastra. In più giocava con il racchettone, una Prince Graphite 110, quella nera con il filino verde. Una racchetta che da noi si vedeva in pugno ai soci di circolo di una certa età (benestanti, perché costava cara) che andavano alla ricerca di volée facili.
Un tipo strano, cresciuto nell’accademia di quell’altro tipo originale, Nick Bollettieri, una specie di guru, ex paracadutista italo-americano, sempre abbronzatissimo, che si era conquistato popolarità con i successi di gente che faceva correre moltissimo e ruggire da fondocampo, come Jimmy Arias o Raffaella Reggi.
Il Foro Italico di meraviglie tennistiche ne aveva viste tantissime. O meglio le aveva viste praticamente tutte dalla metà degli Anni Trenta, quando era diventato la sede del torneo.
Ma quel rumore all’impatto tra racchetta e palla, quello di Andre Agassi, ancora non l’aveva sentito. Quello strano tipo di giocatore, che sembrava appena saltato giù dal palco di un concerto rock, si muoveva come se fosse leggermente accelerato rispetto al normale e impattava la palla a tutta forza, prima del tempo. Prima del tempo che pareva normale agli altri.
Quel giorno, contro Jan Gunnarson, l’esperienza degli spettatori fu amplificata dal fatto che lo svedese, a differenza di tutta la generazione dei suoi connazionali contemporanei, eredi di Borg, specialisti della terra battuta e abili nelle rotazioni in top spin, possedeva un diritto piatto potentissimo e cercava di avvalersene alla prima occasione. Quando lo sparava sulla diagonale di quello di Agassi ne scaturiva “l’inaudibile”: un suono tennisticamente inedito, inaudito, imprevedibile. Non c’era bisogno che finisse il punto: la gente a bordo campo al Foro Italico faceva “ooh” ad ogni impatto. Facevamo “ooh”, come i bambini.
Quello strano tipo di tennista, che picchiava così di diritto ma anche con il rovescio a due mani, che colpiva la palla un frammento di secondo dopo il suo rimbalzo e anticipava sempre, anche sulla terra battuta, era qualcosa di davvero nuovo, mai visto prima. Rompeva gli schemi.
Chi aveva pensato che dopo la rivoluzione del glaciale Bjorn Borg e del suo grande rivale fumantino McEnroe, la rivalità che aveva reso il tennis fenomeno di massa, il tennis avesse visto tutto ciò che di poteva inventare (100 anni dopo l’invenzione del gioco, 1874, e la prima edizione di Wimbledon, 1877), era servito.
Bjorn e John avevano portato fuori dai club esclusivi, dai circoli privati, l’anima di un gioco da signori in candide camicie con le maniche arrotolate e pantaloni lunghi bianchi.
Andre Agassi andava oltre, compiva il passo successivo. Portava la vita della strada, il “fuori”, dentro ai club.
Sarebbe passato per uno stravagante (e nel tennis se ne erano già visti tanti) se non fosse riuscito a imporre questo tennis nuovo come un modello vincente. Se le sue pallate non avessero scardinato tutte le certezze finora garantite da quelli con i muscoli ben torniti, i capelli ben pettinati e le maglie magari colorate ma garbatamente.
Invece Andre Agassi con quel suo look che andava bene al drive-in nel Nevada, così lontano dall’eleganza europea, dalle statue di marmo del Foro, dalla grandeur parigina, dal rigore della tradizione di Wimbledon, incarnava il tennis più nuovo, il gioco più veloce ed evoluto. E vinceva. Rivoltando il tennis come un calzino.
Quando il presidente della Federazione francese Philippe Chatrier lo definì un “pappagallo fluorescente” era effettivamente stato conciato dalla Nike, suo sponsor storico, in modo discutibile. Jeans corti neri sotto ai quali spuntava un paio di pantaloni attillati, da ciclista, color fucsia. La maglia era bianca, nera e fucsia. Come la fascia che teneva i capelli biondastri.
L’Agassi che rispondeva a tono, promettendo di vestirsi di bianco se al Roland Garros avessero tolto tutti i cartelloni degli sponsor, era anche il più forte di tutti. Finalista nel 1990 e 1991, fu sconfitto (come avremmo saputo solo molti anni dopo) dal timore che mentre colpiva la palla, in frangenti delicati come le finali contro l’ecuadoregno Gomez e il connazionale Courier, gli volasse via il toupet che il fratello Phil gli aveva faticosamente fissato sulla testa negli spogliatoi.
Ecco qui l’altra faccia del fenomeno: l’umanità, la fragilità di un fuoriclasse della racchetta che non convive bene con il suo aspetto. Come non riesce a venire a patti con la sua storia di figlio d’immigrati, con il padre che vede nel suo successo una redenzione da costruire e alimentare con il robot sparapalle sin da quando Andre è piccolo. Praticamente appena riesce a scendere da quel seggiolone sopra il quale papà Mike aveva appeso una palla da tennis.
L’immagine del tennis che ha cambiato faccia per sempre è quella di Andre Agassi che vince il primo Slam a Wimbledon con a fianco la sua fidanzatina Wendi, che indossa un ‘chiodo’ in pelle nera, come le ragazze di Grease. E poi, da quando Bruce Springsteen ha cantato la generazione dei Born to Run, di quelli che la redenzione la cercano sulle loro Chevrolet in fuga verso la Promised Land, chi non ha al proprio fianco una Wendi?
La sintesi fenomenale di Agassi è quella di essere un formidabile interprete del suo tempo (paure, complessi, idiosicrasie, fughe, droghe, storie d’amore con star di hollywood come Brooke Shields o Barbra Streisand) e un campione che sente nel profondo il fascino della tradizione sportiva e i suoi valori.
E così, con tutto il fardello di ingenuità del ragazzo arricchito del Nevada, appassionato di fast food e macchine sportive, pronto a regalarne una agli amici che ne vedono un bell’esemplare in vetrina e glielo indicano con gli occhi che brillano, arriva fino all’apprezzare sopra ogni cosa il verde brillante di quel prato londinese dove custodiscono le divinità del gioco. E’ lì che porta la sua Wendi, nel suo primo viaggio a Londra fuori stagione. La porta a Wimbledon a vedere il Museo. E quel prato in primavera, ancora senza le righe.
Andre Agassi e Wendi Stewart a Wimbledon 1992
Per uno come lui, nonostante il padre abbia fatto di tutto per fargli odiare il gioco, la soddisfazione più bella è quella di aver completato un percorso di trionfi (con in mezzo pure le cadute) che non ha eguali.
Andre Agassi è infatti l’unico tennista nella storia ad aver vinto tutto: i quattro tornei del Grande Slam (Australian Open 1995, 2000, 2001 e 2003; Roland Garros 1999, Wimbledon 1992, Us Open 1994 e 1999), la Coppa Davis (1990, 1992, 1995), le Atp Finals (1990) e la medaglia d’oro alle Olimpiadi (Atlanta 1996). E in mezzo ci ha messo anche il crollo del 1997, con la positività alle metanfetamine, la fine del matrimonio con Brooke Shields, il tonfo al n.141 della classifica mondiale.
Il finale davvero da favola della storia, l’amore che a un certo punto sboccia tra lui e Steffi Graf, a sua volta un’icona del tennis, è la chiusura di un cerchio mitico. Come sembra un segno del destino quel passaggio di testimone tra lui e Roger Federer, nella fantastica finale degli Us Open 2005 quando, ormai 35enne, già col suo bel testone pelato, regge il confronto per due set (vince il primo, si fa sfuggire di un pelo il secondo) contro un ragazzo svizzero, 11 anni più giovane, che ha già 5 Slam nel palmares.
Così, festeggiando oggi il 50esimo compleanno di un grandissimo campione che ha smesso di giocare dopo gli Us Open del 2006, possiamo rincuorare tutti quelli che temono il contraccolpo, lo shock che dovremo subire il giorno in cui Roger Federer darà il suo addio alla racchetta (come poi Nadal, Djokovic ecc.ecc).
La loro eredità non si perde: si tramanda. E, vi possiamo assicurare, dire addio ad Andre Agassi e alla sua rivalità con Pete Sampras, sembrava accettare la fine di tutto.
E come sopportare il fatto che un fantastico attaccante gentiluomo come Pat Rafter potesse arrendersi prima di aver conquistato Wimbledon almeno una volta? Sicuramente eravamo inconsolabili quando smise di giocare Stefan Edberg.
Poi arrivano i compleanni da festeggiare e i ricordi da srotolare. Mentre Tsitsipas agita le chiome, Shapovalov disegna rovesci da contorsionista, Berrettini fulmina col diritto, Sinner incenerisce col rovescio e Kyrgios lascia tutti con un palmo di naso. Tanti auguri, Andre. E grazie di tutto.