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Campioni nazionali

Quinzi a cuore aperto: "Il tennis mi pesava, ora studio da coach e voglio dare l'esempio"

L'ex vincitore di Wimbledon Under 18 (ed ex numero 1 del mondo nella categoria) si racconta: dall'addio al tennis all'avvio di una nuova avventura a Bordighera. Con Riccardo Piatti come guida, per diventare allenatore

di | 03 marzo 2023

Sono passati 10 anni da quella vittoria nel torneo Juniores di Wimbledon. Oggi ritroviamo Gianluigi Quinzi – ex numero 1 al mondo Under 18 e poi 142 Atp – nello staff del Piatti Tennis Center di Bordighera. Come è avvenuto questo passaggio?

“La decisione risale a un paio d'anni fa – spiega il 27enne marchigiano – quando ho smesso di giocare. Ero molto stanco mentalmente, vedevo l'attività di professionista come un dovere, più che come un piacere. Così non ho avuto dubbi. Sono andato allo Sporting di Milano 3 per allenare un ragazzino che si chiama Federico Vita, figlio di amici della nostra famiglia. In seguito ho fatto per 3-4 mesi da sparring partner a Camila Giorgi. Poi ho chiesto a Riccardo Piatti di poter fare un'esperienza nel suo team, per capire meglio cosa significa allenare. Mi sto trovando molto bene, sento di essere nel posto giusto per imparare il mestiere”.

Come l'ha accolta Riccardo e che consigli le ha dato?

“Mi ha dato subito una responsabilità importante. Dopo pochi mesi mi ha chiesto di seguire alcuni dei migliori giovani che sono presenti all'accademia. Si è fidato di me e questo non era affatto scontato, dunque sono felice. Curiamo tanto i dettagli, in particolare nella formazione. Le stesse attenzioni dei professionisti le hanno i ragazzini di 11 o 12 anni. Gli allievi non sono numeri, ognuno ha il proprio referente sotto ogni aspetto. C'è un metodo semplice ed efficace, che vale per tutti. E se sei bravo a capire cosa devi fare con i bambini, senz'altro sarai in grado di ripeterlo anche con un professionista. Servono poche cose, semplici ma giuste. Il tennis è uno sport talmente difficile che l'obiettivo deve essere quello di semplificare. Infine, l'ambiente è fantastico, per me è un po' come stare in famiglia”.

Che impressione le ha fatto coach Piatti?

“Riccardo, oltre a essere un professionista straordinario, è anche una bellissima persona. Dà consigli e feedback, sta sempre sul campo, ti fa capire come ragionano i pro. Quando arrivano dei campioni, e capita spesso, ti fa entrare in campo con lui e ti fa capire come ragionano e come lavorano. Per arrivare un domani a essere coach di alto livello. Altri coach magari tendono a tenersi per loro le proprie qualità, a essere un po' gelosi di ciò che fanno. Riccardo, al contrario, ama condividere: è il valore aggiunto dell'accademia, che fa capire tutto in maniera molto semplice”.

Quando lei era giocatore eravate mai entrati in contatto?

“Da piccolo, quando avevo 11 o 12 anni, facevo spesso un richiamo della preparazione con lui a Monte-Carlo, mentre lavorava con Ivan Ljubicic e Novak Djokovic. Ma non mi sono mai allenato stabilmente con il suo team”.

Avete mai parlato di come si sarebbe potuta evolvere la sua carriera, se vi foste incontrati prima?

“Sì, ne abbiamo parlato. A me da giovane è mancato lo sviluppo della parte tecnica, che ho lasciato da parte perché mi basavo tanto sul risultato immediato e poco sul miglioramento a lungo termine. Se lo avessi avuto come coach tra gli 11 e i 15 anni, credo avrei avuto grosse chance di fare qualcosa di meglio in carriera. Io vincevo tanto ma in fondo lavoravo poco. Invece a quell'età è importante curare quella crescita del proprio bagaglio tecnico che in seguito è difficile modificare. Non mi ritengo sfortunato, ma posso dire che i coach al mio fianco non mi hanno portato a ragionare così. Non sono riusciti a farmi capire che contava più la tecnica che la vittoria, che vincere non era la priorità”.

Se avessi avuto Piatti come coach tra gli 11 e i 15 anni, credo avrei avuto grosse chance di fare qualcosa di meglio in carriera. Io vincevo tanto ma in fondo lavoravo poco.

Ha mai avuto un momento, in questi due anni dal suo addio al mondo dei pro, in cui ha pensato di voler tornare?

“Assolutamente no, perché quando ho annunciato il ritiro mi sono tolto un peso. Negli ultimi anni ero andato avanti per inerzia. Adesso ho più responsabilità, ma mi alzo la mattina e sono felice di andare a educare i giovani. Magari cercando di evitare che facciano gli errori che ho fatto io”.

Che feedback riceve da parte degli allievi, si sente ascoltato?

“Sì, mi ascoltano. All'inizio facevo più fatica, ma sbagliavo io perché davo certe cose per scontate, quindi facevo fatica a dialogare. Poi man mano mi sono calato nel ruolo, ho capito le loro esigenze e adesso entro nei dettagli, non lascio nulla di non detto. Questo è fondamentale”.

Nel dicembre 2022 è scomparso Nick Bollettieri, una figura chiave per lei.

“La sua morte mi ha toccato molto, perché Nick è stato una componente fondamentale della mia carriera. Da lui ho ricevuto la mia prima borsa di studio, da lui ho sentito di valere. È stato l'unico che si alzava alle 4 di mattina per allenarmi e darmi lezioni private. Mi ha preso come un figlio, più che come un allievo, e gliene sarò grato per sempre”.

Qualche consiglio di Nick che porta in campo oggi?

“Mi diceva sempre di mettere una logica su ogni palla che si gioca. Di allenarsi non per faticare ma per dare un senso a quello che si fa. Fin da quando avevo 7 anni mi ha fatto capire perché dovevo fare un certo esercizio. Un aspetto fondamentale sul quale sto puntando adesso: non devi solo fare una cosa perché te lo dice il coach ma perché capisci che in quel modo stai facendo progressi”.

Al di fuori del tennis, cosa è accaduto nella sua vita dopo il ritiro?

“Ho studiato e mi sono laureato, triennale in Sport Management (votazione 110, ndr). Adesso mi manca un esame per la magistrale”.

Bollettieri si alzava alle 4 di mattina per allenarmi e darmi lezioni private. Mi ha preso come un figlio, più che come un allievo.

Si vede in un altro settore del tennis, che non sia l'insegnamento?

“Perché no, potrebbe essere. Intanto sono confermato anche per quest'anno come direttore del torneo Challenger di Francavilla al Mare. Mi piace quel ruolo perché ho un legame forte con il presidente del circolo e adoro stare a contatto coi giocatori, che in fondo sono sempre il mio mondo. Ho voluto studiare, e l'ho voluto fare seriamente, perché se un giorno dovessi aprire qualcosa di mio, potrei gestire anche la parte manageriale”.

Ma tra coach e manager, costretto a scegliere, cosa vorrebbe essere?

“Coach, tutta la vita. Sono più un uomo di campo e di sudore”.

A proposito. Raccontano che in Australia lo scorso gennaio sia andato in campo coi ragazzi quando c'erano 40 gradi e lei aveva la febbre, nemmeno poca...

“Certo. Perché se diciamo che bisogna 'stare nelle difficoltà' ma non lo facciamo noi coach per primi, è difficile che i ragazzi crescano educati in quel modo. L'esempio è più importante delle parole. A 15 o 16 anni non sei indipendente, non riesci a gestirti da solo e avere una guida che mostra la strada è fondamentale”.

Come è cambiato il tennis dal 2013, quando lei era numero 1 al mondo Under 18, a oggi?

“Adesso forse c'è una tendenza ad attaccare un po' di più, rispetto a qualche tempo fa, ad andare più a rete. A livello Juniores inoltre ci sono dei veri e propri team a disposizione dei ragazzi, ognuno ha il suo e anche tra i giovani c'è molto più rigore negli allenamenti. Infine, una nota sui tornei: quando giocavo io c'erano meno Challenger ed erano mediamente più duri. Oggi ce ne sono di più e arrivare nei top 100 potrebbe essere un po' meno complicato, anche se è tutto relativo”.

Cosa direbbe il coach Quinzi al giocatore Quinzi?

“Tante cose. Non devi focalizzarti troppo sul risultato immediato. Non devi avere fretta, perdi qualche partita in più e allenati con qualità per ritrovarti con un vantaggio dopo qualche anno. Non sentirti sempre sotto esame, soprattutto quando stai crescendo. Non perderti nel dimostrare qualcosa a qualcuno. Mantieni le energie per quando serve davvero. Quando perdi, allenati come e più di quando vinci”.

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