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Il 39enne romano, già n. 33 del mondo, ha chiuso la sua carriera a New York, nelle qualificazioni dello US Open. In questa intervista, che ci ha concesso dalla sua casa in Florida, ci racconta il legame con gli USA e ricorda i momenti più belli del suo viaggio sportivo
di Alessandro Mastroluca | 29 agosto 2021
Tanti ricordi e un piccolo rimpianto, non aver potuto giocare l'ultima partita della sua carriera con i tifosi sugli spalti. Si è chiusa così, nelle qualificazione degli Us Open 2021, la carriera di Paolo Lorenzi, un esempio positivo di passione e longevità tennistica.
E' entrato tra i primi 100 del mondo a 27 anni. Ha vinto il suo unico titolo ATP a 34 anni, il più anziano a trionfare per la prima volta nel circuito maggiore dal 1990. E a 35, ha toccato il best ranking: 33° nella classifica ATP. Nella sua carriera, è anche secondo per partite vinte (421) e terzo per titoli (21) nel circuito Challenger.
Raggiungiamo Lorenzi al telefono nella sua casa in Florida, dove da qualche anno ha scelto di vivere. Lo riavvolgiamo da qui, con gli occhi rivolti verso il mare, il nastro di quello che ha definito "il viaggio più bello della mia vita".
Come e perché hai scelto gli USA in quest'ultima parte del viaggio?
Dieci anni fa ho avuto la fortuna di giocare a Sarasota un Challenger. Ho avuto la fortuna di conoscere il proprietario di un ristorante. Siamo diventati amici, lui mi è venuto a vedere sempre, ogni volta che venivo a giocare qui. E tutte le volte che c'era un torneo da questa parte del mondo, mi fermavo a Sarasota. Mi sono innamorato del posto. Io poi adoro il caldo e le spiagge. E qui, dalla parte del golfo del Messico, per me ci sono le più belle di tutti gli Stati Uniti.
La scelta di New York come tappa conclusiva del viaggio si deve anche a questo?
Ho scelto l'America perché New York mi è sempre stata nel cuore, qui ho vinto la mia prima partita Slam, ho raggiunto un ottavo di finale e due terzi turni. Poi quando ho fatto ottavi c'era mio fratello, mia moglie veniva tutti gli anni. New York è sempre stata speciale. E qui ho giocato la mia partita migliore dal punto di vista tennistico, il terzo turno del 2016 contro Andy Murray. Mi è mancata l'esperienza per poter giocare al meglio i punti importanti, perché ero avanti 5-2 al primo set e 5-3 nel secondo (l'allora n.2 del mondo si impose alla fine 7-6 5-7 6-2 6-3 n.d.r.). Ma rivedendo le immagini, penso che mi sarebbe piaciuto giocare così tutta la carriera.
Cosa ha rappresentato per te quel match con Murray, e quel traguardo in un major?
Quell'anno è stato speciale, al secondo turno avevo battuto Gilles Simon 7-6 al quinto. La mattina dopo mi alzai per andare al circolo, ma non riuscivo a camminare. Sul Centrale di New York avevo già giocato perdendo facile da Djokovic, e invece quella volta sono arrivato pronto. Nella mia carriera ho sempre impiegato un po' a raggiungere gli obiettivi, ho dovuto viverli prima. In quell'occasione contro Murray arrivavo da quell'esperienza sul Centrale, ma sentivo che stavo giocando davvero bene. Ho sempre avuto la sensazione che preparare le partite fosse la parte più difficile. Io cercavo solo di battere Murray, e poi mi ero scaldato con Jacopo Berrettini. Mi è sempre piaciuto allenarmi e giocare con i giovani italiani.
L'Italia e i Challenger: un amore... da record
Poi si è creata una bella amicizia anche con Matteo: che rapporto hai con lui e con i tennisti azzurri più giovani?
Con Matteo ci allenavamo spesso insieme, io conoscevo già Vincenzo Santopadre. Nel 2018, siamo andati insieme a Gstaad. Io ho detto a mia moglie che avrebbe vinto il torneo. E così è andata. Ho avuto la fortuna di essergli stato vicino in questo che è l'inizio di una fantastica carriera, e lo ringrazio. Sicuramente lui e Jannik Sinner sono i giocatori italiani con cui ho più rapporti. Li sento personalmente spesso, anche attraverso messaggi. Ho avuto il vantaggio di allenarmi con loro quando ero io quello forte, e loro adesso magari se lo ricordano.
Se questo è l'effetto della tua vicinanza, dovrebbero chiamarti in tanti.
A me piaceva molto, devo dire, allenarmi con loro. Son diventato forte quando ero sportivamente 'vecchio', avevo tanto da dare a loro ma d'altra parte loro avevano molta più voglia di allenarsi di altri giocatori della mia età. Ci aiutavamo a vicenda.
Sono riuscito a fare per quarant'anni quello per cui mi alzavo da bambino. Mi ha permesso di conoscere il mondo
In questa tua lunga carriera, sei stato spesso etichettato come un lottatore che suda, fatica, corre. Ma negli anni il tuo tennis si è evoluto, è diventato più completo. Ti ha mai tra virgolette infastidito questo giudizio?
Sinceramente no, capisco che in molti vedono giocare Roger Federer e io non lo sono. Però da un altro punto di vista, forse l'errore che hanno fatto è pensare che star lì tutti i giorni, cercare di migliorarsi, allenarsi sempre, non sia una forma di talento. Io forse sono stato uno dei primi a lavorare con uno psicologo. Avevo sedici anni, ne son passati venticinque, e allora ero all'avanguardia: ho sempre pensato che la parte mentale, per essere un professionista di qualunque livello, sia fondamentale. Mi faceva piacere se dicevano che ero un esempio, che lottavo su tutti i punti. Magari non l'hanno apprezzato tanto, perché dietro c'era davvero un grande lavoro.
Ti sei sempre vissuto da professionista, anche da giovane. Immagino che non sia facile curare gli allenamenti o l'alimentazione quando si giocano tornei ITF magari in nazioni o strutture non così all'avanguardia: sbaglio?
Son d'accordo con te. Probabilmente la mia fortuna è stata la grossa passione che avevo per il tennis. Da piccolo, sognavo di far quello. E ho capito subito che per diventare un tennista dovevo essere un professionista. E io lo intendo come qualcuno che fa al meglio il suo lavoro e cerca di raggiungere obiettivi che per qualcun altro sarebbero impossibili. Quindi dato che il mio fisico è una parte del mio lavoro, sapevo che dovevo cercare di mangiar bene, andare a letto presto e così via.
Ricordi un consiglio che ti han dato in quegli anni, quando i risultati non corrispondevano del tutto all'impegno che mettevi per raggiungere, ad esempio, la Top 100?
Mi ha aiutato, credo, l'incoscienza nel credere di poter diventare un giocatore professionista ancora a 27 anni, quando il mio best ranking era stato di n.160. Più che un consiglio però, e questo riflette l'atteggiamento che ho sempre cercato di avere, io ho sempre guardato gli altri e cercavo di fare come loro, ed è un consiglio che darei ai giovani. Ad esempio negli Slam, andavo a vedere le partite di Nadal, provavo a non perdermele perché il suo atteggiamento era quello che avrei voluto avere io.
Hai nominato Rafa Nadal, e non posso non riportarti a un caldissimo pomeriggio agli Internazionali BNL d'Italia, a quel 2011 in cui gli hai tolto un set e per almeno un'ora hai giocato un tennis da favola. Che ricordi hai di quel giorno e di quel match?
E' uno dei più grandi ricordi che mi porto dietro, perché è stata la prima volta che ho giocato alla pari contro uno dei migliori del mondo. Da lì ho iniziato a credere di poter raggiungere altri risultati, di non essere solo una comparsa nei primi cento del mondo. Quella settimana è stata incredibile. Venivo dalle qualificazioni, avevo battuto Andujar che era numero 52-53 del mondo. Al primo turno, sulla SuperTennis Arena ho battuto il brasiliano Bellucci, n.22, con un tifo pazzesco. Il mio allenatore Claudio Galoppini quel giorno si era portato la borsa al Foro pronta, credo che non avesse tanta fiducia. Poi però gliel'ho fatta riportare anche per il match con Nadal. "Magari facciamo il colpaccio anche stavolta" gli ho detto.
E i tifosi ci han creduto, a quel colpaccio. In campo, come l'hai vissuta?
Probabilmente l'avevo visto così tante volte che sapevo sempre dove avrebbe tirato. Mi sembrava che tutto quel che succedeva, lui l'avesse già fatto. Poi in quelle situazioni, il pubblico aiuta tanto. Il pubblico di Roma e della Coppa Davis è diverso. I tifosi italiani sono critici in genere, lo sono anche io quando vado allo stadio. Ma a Roma e in Davis cercano solo di incitarti dal primo all'ultimo punto.
Anche in Davis hai giocato partite storiche, come la sfida con Chiudinelli nel 2016 in cui hai vinto il tiebreak più lungo in un singolare di World Group nella storia della manifestazione. Quali i ricordi più belli in nazionale?
Ricordo il mio esordio in Davis, a Torino contro Cilic. Andammo al quinto, anche se lui era molto più favorito di me. Poi c'è la partita contro Chiudinelli, ho annullato tre match point. Quando c'era tanta gente a vedermi ho dato sempre qualcosa in più. E il mio rimpianto più grande è l'aver terminato la carriera senza pubblico.. Volevo qualificarmi per finire a New York in mezzo alla gente.
Son partito la prima volta a sedici anni e mezzo, sono andato in Egitto da solo. Da lì ho imparato inglese e spagnolo, ho mangiato tutti i cibi possibili. Mi son trovato e mi trove bene in tante situazioni. E tutto questo mentre facevo quello che mi piaceva di più
Ovviamente non possiamo non ricordare la settimana del tuo unico titolo ATP a Kitzbuhel. Cosa ti porti dietro di quel torneo?
E' stata una settimana incredibile. Venivo da una sconfitta in Coppa Davis contro l'Argentina, in doppio io e Fabio Fognini avevamo perso 6-4 al quinto contro Del Potro e Pella. Sono andato a Kitzbuhel con il mio migliore amico, Pietro Griccioli che è anche un maestro di tennis. Dopo una delusione del genere, la speranza era di far bene, di vincere una o due partite anche perché non avevo mai fatto troppo bene lì. E invece, è successo tutto quello che doveva succedere. In semifinale, nel primo set perdevo 5-3 40-0 e l'ho vinto. Per conquistare un titolo, ci vuole bravura ma anche un po' di fortuna.
Finora abbiamo toccato momenti belli della tua carriera. C'è invece un match che vorresti poter rigiocare?
Sicuramente la finale di Quito del 2017. Ho perso contro Estrella Burgos, che lì ha vinto tre volte di fila. Ero avanti di un set e un break, ho avuto un match point al tiebreak del terzo set. Contro Estrella ho sempre vinto lottando ma ho perso solo quella volta, e con match point a favore. La vorrei rigiocare, mi sarebbe piaciuto vincere un altro torneo ATP.
Dopo la tua ultima partita hai detto che il tennis è stato il viaggio più bello della tua vita. Cosa lo ha reso così speciale?
Sono riuscito a fare per quarant'anni quello per cui mi alzavo da bambino. Mi ha permesso di conoscere il mondo. Son partito la prima volta a sedici anni e mezzo, sono andato in Egitto da solo. Da lì ho imparato inglese e spagnolo, ho mangiato tutti i cibi possibili, mi son trovato e mi trovo bene in tante situazioni. E tutto questo mentre facevo quello che mi piaceva di più. Penso che sia impagabile.
In questi giorni, dopo la tua ultima partita, sono arrivati tanti attestati di stima pubblici, e immagino avrai avuto anche tanti messaggi privati. Sei sorpreso di quello che hai lasciato ai tifosi?
Sono piacevolmente sorpreso, non mi aspettavo tutto questo. Avevo detto all'ATP prima di New York che avrei smesso di giocare ma pensavo che la cosa passasse in sordina. Invece sono stato riempito di messaggi e dimostrazioni di affetto. Vuol dire che ho fatto qualcosa di importante. Poi non mi aspettavo di ricevere messaggi personali come quello di Matteo Berrettini e di tanti altri giocatori.
Sei stato, si può dire, un bell'esempio positivo per tutto il tennis italiano.
Lo spero tanto. Il messaggio di Matteo mi ha fatto pensare che davvero sono stato importante per loro. E quando te lo dice un giocatore che è adesso tra i primi dieci del mondo, che ha giocato una finale di Wimbledon, vuol dire che ho lasciato un bel ricordo e che ho fatto abbastanza per il tennis.
Un'ultima cosa: nel futuro, vedi la possibilità di trasmettere tutto questo ad altri giocatori? Ti vedi come allenatore?
E' una figura che mi piacerebbe fare. Spero di poter dare tanto, io se ho un'ora libera mi guardo le partite. Spero di trasmettere questa passione e magari dare una mano ai ragazzi nel passaggio dai tornei minori ai più importanti. E' un passaggio difficile, per me lo è stato, e mi piacerebbe poter essere di aiuto.