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Il due volte vincitore del premio Strega è un appassionato giocatore. Il senso del "colibrì" per il tennis. A fine maggio in uscita quattro podcast sulla partita più lunga di sempre, Isner-Mahut a Wimbledon
di Claudia Fusani | 16 maggio 2021
Dici “tennis” ed è come la “madaleine” per Proust: la parola magica che apre il flusso della memoria, ricordi, emozioni, sfide, ambizioni, rimorsi e rimpianti, tic e difetti, lezioni di vita, presente e futuro. Dici tennis e per Sandro Veronesi è come si aprisse un mondo. Vero o fasullo, inventato o reale e però un mondo che lo scrittore, sposato, cinque figli, due volte vincitore del premio Strega (Caos Calmo, ed Bompiani e Colibrì, ed. Nave di Teseo), abita volentieri.
Che rapporto c’è tra Sandro Veronesi e il tennis?
“Prima di tutto è la mia infanzia e adolescenza. Giocavo per il circolo Etruria Prato, fino ad under 16 a un buon livello. Per gli appassionati di quella generazione, in squadra con me giocava Ciardi, contro avevamo Parrini, Nesti, Paladini, Perfetti, Messina, erano gli anni settanta. Più che in squadra con me sarebbe corretto dire che io ero in squadra con lui. Io ero il secondo dei doppisti. Abbiamo vinto il titolo italiano under 14”.
Quasi un professionista…
“Macché, mi piaceva tanto. E proprio grazie al tennis ho imparato a perdere e ad accettare i miei limiti. Il campo non mente. E questo sport non prevede pareggio. Prima si capisce che abbiamo dei limiti, meglio è. Tanto prima o poi arrivano sempre. E bisogna farci i conti”.
Lezione numero 1. E la numero 2?
“Accontentarsi. Appunto, a 16 anni accettati i miei limiti ed ebbi il coraggio di capire che potevo allenarmi quanto volevo ma Ciardi e Parrini sarebbero stati sempre e comunque i più forti”.
Umiltà?
“L’umiltà è una cosa diversa. Qui si tratta di essere lucidi e accettare le cose come sono. Quando non mi sono più accontentato ho deciso di smettere. Ho così lasciato il tennis agonistico ma non il tennis che mi piace moltissimo”.
Salieri e Mozart…
(Veronesi sorride, sorride spesso durante questa intervista...) “Non esageriamo. Qui parliamo di persone normali. Io non sono mai stato Salieri. E anche Ciardi, per quanto bravo, non è mai stato Mozart…”.
Ci perdonerai, il tennis induce a qualche iperbole… Veronesi ancora gioca a tennis?
“Certo che sì, ma tra amici. Nessuna velleità. Sono diventato invece un fan dello sport guardato. Sono uno dei pochi che dice che lo sport va seguito sul divano davanti ad una bella tv che magari, invece di mandare la pubblicità ai cambi campo, piazza la telecamera addosso al giocatore o alla giocatrice seduta e scova ogni minino tic. Lo sport dal divano - il tennis dal divano - è certamente meno faticoso. Ma il dolore e l’intensità della partecipazione possono essere ugualmente intensi”.
Il rapporto tra Veronesi scrittore e il tennis?
“Il tennis è un sport molto letterario. In tutte le partite, anche quelle di due set su tre, figuriamoci in quelle tre su cinque, l’inerzia della partita può cambiare continuamente, anche due, tre, quattro volte. Arrivi a un passo dalla vittoria, poi, senza un motivo apparente, ti ritrovi sull’orlo del precipizio e allora a quel punto ti puoi anche rialzare. Nel tennis non è mai finita finché esci dal campo. Tutto questo è un tipico andamento romanzesco. Di più: da poema cavalleresco. Direi che questa è la cifra, le regola del tennis: nulla è mai scontato. Questo lo ritroviamo anche in altri sport individuali, dove c’è l’uno-contro-uno, nel pugilato, ad esempio. Ovunque dove ci sono corpi che si affrontano e menti che si affrontano, ci sono continui cambi di scena. E in quei momenti, quelli della svolta, è lì che i protagonisti attingono a riserve mentali extra che si attivano solo in quei precisi momenti e che spesso risultano straordinari per lo spettatore sul divano”.
Questo sport è un romanzo cavalleresco con continui colpi di scena e nulla è mai scontato
Le “riserve mentali”. Chiamiamolo anche “elemento psicologico” del duello. Praterie da esplorare per uno scrittore?
“Senza dubbio, tutto molto letterario, ben oltre la consapevolezza degli stessi protagonisti. E’ il momento in cui il corpo fa quello che dice la mente. Nadal, ad esempio: quello che mi piace di lui, pur non amandolo, è che magari è sotto 5-1 40 a zero. A quel punto scatta quella cosa che un campione conosce di se stesso, che lo fa esaltare e gli fa ribaltare il risultato. Proprio quando gli altri morirebbero. Molto letterario”.
In “Colibrì” Marco Carrera, l’uomo-colibrì che si muove tanto per stare fermo, gioca a tennis. A Firenze e poi a Roma. Prima di tutto: Marco Carrera è anche, un po’, Sandro Veronesi?
“No, è l’opposto di Sandro Veronesi sul campo da tennis, che non ha mai desiderato essere Carrera-Colibrì. Io ho una concezione dl tennis come Moana Pozzi del sesso: andare avanti e fare il punto il prima possibile, attaccare, il pallonetto, o la smorzata, devono essere vincenti e non attendisti e di difesa. Marco Carrera è uno di quelli che gioca tutti i punti, un giocatore solido che non si preoccupa dello stile. E si prende belle soddisfazioni. Alla fine sul campo, e nella vita, vince Carrera. Il colibri è l’emblema della tenacia”.
Chi è il più Colibrì nel tennis?
“Non saprei. Forse tutti i grandi devono essere un po’ Colibrì nell’arco di una partita. Il tennis è lo sport giusto per il Colibrì perché arriva sempre, anche nei grandi match, il momento in cui uno i giocatori, o uno solo dei due, pensa: io adesso sto qui un minuto più di te e vinco”.
Quindi il tennis è un espediente narrativo? O c’entra qualcosa con le tecniche di vita e di sopravvivenza?
“Il Colibrì è il pallettaro. E lo dico senza alcun disprezzo, sia chiaro. Anche perché i colibrì erano gli unici che riuscivo a battere. Solo che loro sono andati avanti e io ho smesso. Mi viene in mente Michael Chang: è stato il prototipo del pallettaro che ad un certo punto compie l’impresa. E non una volta sola”.
Era il 1989, ottavi di finale al Roland Garros, in campo il diciassettenne Chang e il numero 1 Ivan Lendl. S’inventò il servizio dal basso, andò a rispondere in pratica sulla riga del servizio. Anche così vinse il suo primo e unico slam.
“Questa cosa del disprezzo del pallettaro, tra i tennisti ma non solo, è un luogo comune da superare. Marco Carrera è un colibrì-pallettaro: a 60 anni fa i tornei di tennis e li vince”.
Veloce carrellata sui miti di Veronesi con la racchetta…
“Federer è l’idolo, mio e di tanti, forse tutti. E non è vero che non è un giocatore solido”.
Forse gli manca l’istinto killer…
“Discorso lungo. Intanto gioca ancora e ogni volta è un evento. Federer è win-win sempre. Al di là del risultato. Di Nadal ho detto. Forse quello che mi appassiona meno è Djokovic, ma dipende. I miei miti sono stati Panatta, Stan Smith, Tommy Okker.”.
Okker, l’olandese volante nei primi dieci per sette stagioni consecutive, dal 1968 al 1974…
“Proprio lui. Una volta ho avuto il privilegio di poter percorrere l’hall of fame del Foro Italico dove è esposta la galleria dei campioni di tutte le edizioni degli Internazionali. Tra i tanti ho scelto di fare la foto accanto a lui”.
Ci piaccia o no, sta per finire un romanzo epico di oltre quindici anni, quello scritto da Federer, Nadal, Djokovic. Ora è in corso il ricambio. Nostalgia? L’ital-tennis ha dieci giocatori nei primi cento. Mai successo. Chi ti incuriosisce di più?
“Quel romanzo non è ancora finito. Aspettiamo che finisca e poi se ne parlerà. Mi piacciono tutti i nostri giocatori nei primi cento. Per favore però, togliete quei cappellini indossati con la visiera al contrario. Non si può vedere. L’unico è Sinner, che infatti non lo mette così. Guardate non è un dettaglio”.
In Italia le ragazze del tennis hanno regalato successi e passione per dieci bellissimi anni. Chi ti piaceva di più?
“Vero, sono stati anni bellissimi. In assoluto premio Roberta Vinci con quel rovescio tagliato lungo, languido e spesso senza peso e le smorzate… Ecco, per me lei è il tennis”.
Tra le top?
“Indiscutibilmente, disperatamente Serena Williams. E’ una dea, al di là del bene e del male. Ricordo una volta, dopo aver vinto uno dei suoi ventitré Slam, in cui disse: ‘Ora passo un giornata in un McDonald e mi sfondo’. Cioè, capite: parliamo di una che tira le corde a 30 kg, un altro pianeta”.
E tra le nuove generazioni?
“Naomi Osaka; tra l’altro lei è “mia” anche se non sa di esserlo”.
Con ordine. Perchè Osaka?
“E’ una mutante, ambasciatrice del futuro perché mette insieme tutto: è nera, giapponese, legata alla tradizione ma sa già mescolare alla sua età doveri imprenditoriali e civili. S’impuntò agli Us Open perché il movimento Black lives matter avesse cittadinanza in quello stadio mai coinvolto in questioni che hanno a che fare con i diritti e la politica. Dico che è ‘mia’ perché l’ho presa e l’ho tirata su, dal mio divano, fin dal primo Slam. Poi me l’hanno portata via”.
Come nacque Smash (ed. Nave di Teseo), la raccolta di racconti sul tennis pubblicata nel 2016?
“Fu un’idea brillante di Eugenio Lio, uno dei fondatori. A parte il listino dei classici, voleva qualcosa sul tennis, una serie di racconti anche di autori vari, e mi chiese se volessi coordinare sul lavoro. E’ stata un’ottima idea”.
A cosa lavora adesso Veronesi?
“Colibrì diventa un film. A metà giugno iniziano le riprese. A fine maggio uscirà un mio lavoro sul tennis. Quattro podcast per Coramedia in cui racconto la più lunga partita di tennis della storia. Il titolo è Gravity”.
Wimbledon, 24 giugno 2010, campo numero 18, Isner-Mahut.
“Esattamente, undici ore e 5 minuti per un match durato tre giorni e concluso al tie break del quinto 7-0 a 6-8 per John Isner”.
E cosa racconta in quattro podcast?
“In quei tre giorni è successo di tutto nel mondo, Obama licenziava il generale delle truppe alleate in Afghanistan, l’Italia fu eliminata dai Mondiali di calcio in Sudafrica, la regina Elisabetta tornò dopo 33 anni al Royal Box ma le regole del torneo impedirono di spostare la partita sul centrale di Wimbledon. Tutto questo mentre gli occhi del mondo, una parte di mondo, volevano stare solo sul quel campo numero 18 dell’All England Lawn and Tennis Club. A proposito della domanda se il tennis è o no uno sport letterario”.