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“Porto in scena la magnifica ossessione del tennis grazie ad un muro trasparente”. Intervista con l’attore e regista, nipote dell’ex capitano di Davis Vasco Valerio. Il successo della piece firmata con Marco Ongaro. Una storia d’amore in circa mille palleggi
di Claudia Fusani | 23 ottobre 2021
Ha palleggiato contro il “muro trasparente” per quasi un’ora, variando i colpi, parlando e raccontando la storia bella e disperata di Max e Giulia. Paolo Valerio, serve più fisico o più testa per una prestazione del genere?
“Cinquanta e cinquanta -sorride Paolo Valerio - In effetti il palcoscenico del Quirino pende verso la platea di 5 cm e mezzo, non tutti i teatri sono così. Questo impone un’attenzione particolare sulla palla. Ecco che oltre la fatica della concentrazione fisica e mentale, ci dobbiamo aggiungere quella per cui ho dovuto tenere le ginocchia costantemente piegate. Per non sbagliare sa… quando succede sento una fitta al cuore, un’umiliazione. Come da ragazzi quando il maestro diceva: “Mai contro la rete, mai…”.
Paolo Valerio è un 'tennis addicted' di sessant’anni portati su un fisico asciutto in perfetta forma. Tra i segni particolari ne vanta uno molto speciale: da giovane è stato un buon seconda categoria, tuttora è un 3/4 - quindi competitivo - ma nella vita è soprattutto attore, autore, regista e direttore del Teatro Rossetti di Trieste, il teatro stabile del Friuli Venezia Giulia dopo esserlo stato per anni del Teatro Nuovo di Verona. Tennis & Teatro, due ingredienti abbastanza insoliti e che alla fine, dopo vari pensamenti, tentazioni e progetti, hanno prodotto una piece teatrale squisita e a suo modo geniale. Tre anni fa con Marco Ongaro ha scritto “Il Muro trasparente - Delirio di un tennista sentimentale”, un monologo di 50 minuti che si svolge davanti ad un muro di plexiglass montato sul boccascena, davanti agli spettatori che osservano ipnotizzati la pallina e ascoltano il racconto-confessione di Max. Incontriamo Valerio dopo aver visto la piece al teatro Quirino di Roma.
Allora, cos’è quel muro? Metafora di… ?
“Questo spettacolo ha una genesi lunga e complicata. Io e Marco Ongaro abbiamo scritto la storia tre anni fa, circa. Volevo raccontare una storia di amore e sport che sono la mia passione e ossessione. Dovevo però trovare una soluzione tecnica inedita che ci facesse uscire dallo schema del monologo tradizionale. Volevo un racconto giocato, dove il gesto tecnico del tennis avesse pari dignità rispetto a quello lessicale”.
I gesti bianchi del tennis come parole?
“Bianchi o meno - anche se io gioco in perfetta tenuta bianca - credo fortemente che quei gesti abbiano la potenza delle parole. La pallina, poi, ha una sua drammaturgia. Ma torniamo al muro trasparente che è stata la soluzione. L’escamotage del muro in realtà c’è sempre stato, solo chi ha giocato sa quanto sia importante per un tennista. Ne ho provato di vari tipi, mattoni, cemento. Poi è arrivato il Covid, i divieti, le privazioni, i lockdown, la separazione. E i pannelli di plexiglass. Ecco che il muro è diventato in plexiglass, montato come la "quarta parete” immaginata da Diderot che nel nostro spettacolo esiste anche per essere “rotta” dalla pallina che rimbalza contro quasi da attraversarla per arrivare al pubblico. E’ un tentativo nuovo e diverso di comunicare”.
Infatti, nella seconda parte dello spettacolo lei invita il pubblico a giocare sul palco contro il muro. Una sorta di rito collettivo liberatorio.
“Diciamo che questo sarebbe l’obiettivo. Per ora il pubblico ha sempre partecipato, con entusiasmo. Questa cosa della pallina che arriva contro il pubblico è molto forte. Coinvolgente e comunicativa, appunto”.
Il muro nel tennis come una seduta dallo psicanalista?
“Al muro si vedono tante cose di noi, soprattutto i difetti. Il rumore della pallina crea una sorta di ipnosi. E ho pensato la pallina come un battito cardiaco, il nostro cuore. Il muro è il nostro specchio. Un po’ come lo psicanalista. In questo senso è anche una cura”.
Ha pensato di portare il "Muro trasparente” on stage direttamente sui campi da tennis?
“Mi piacerebbe farlo. Nel caso potrebbe diventare un work in progress anche da un punto di vista tecnico. Sperimentando con telecamere e audio. Anche il finale potrebbe cambiare…”.
Che fa, spoilerizza?
“Mai, dico solo che il finale può cambiare. Ne ho previsti diversi. Rivelo qui solo un indizio. Ad un certo punto Max dice: ”Il tennis mi ha salvato la vita”. Ognuno può, dovrebbe, trovare il finale più in sintonia con la sua idea del tennis e dell’amore”.
Il Muro Trasparente è zeppo di citazioni: “Open” di Agassi; “Il sesso come sublimazione del tennis ovvero i Taccuini segreti di Freud”, “L’Infinite Jest” di David Foster Wallace che per chi ama il tennis è un po’ come la Divina Commedia o i Promessi Sposi per chi si occupa di letteratura. Lo sport sussurra spesso alla letteratura. Il tennis meno e da una dozzina d’anni molto di più. Si è chiesto perché?
“Buona parte delle ragioni, direi quelle più commerciali, vanno cercate nel fenomeno ‘Open’ che ha dato voce ad un popolo, quello dei tennisti, rimasto afono per troppo tempo rispetto ad altri sport, soprattutto di squadra più facili a raccontare dinamiche anche sociali e quindi narrative. Però attenzione: il rapporto con la letteratura per il tennis è fondamentale, antico, quasi strutturale perché il tennis è così mentale che ha bisogno della letteratura per esprimersi ed essere raccontato. Io ho cominciato ad occuparmi di teatro perché mi sono innamorato della poesia e della letteratura. E si può dire che sono nato con la racchetta. Ho sempre affrontato una partita a tennis con la stessa concentrazione con cui affronto un libro. La tennis-terapia è molto vicino alla terapia-letteraria”.
Quando ha scoperto la dimensione teatrale del tennis?
“Ci provo da sempre perché si cerca sempre il modo di unire le passioni. Spero di esserci riuscito con questo progetto. La difficoltà è stata nel trovare una nuova modalità narrativa-scenografica. Ho anche un altro progetto pronto, non dico cosa per scaramanzia. Diciamo che è una trasposizione ironica e leggera di un testo impegnativo. Un soft thriller.…”
Quando e come ha capito che “Il muro trasparente” funziona?
“Ogni spettacolo è un esperimento. Finché io stesso non esco dal muro e quindi dal palleggio non capisco come è andata. E’ bello quando mi dicono “è stato un radiodramma”, “sono rimasto anestetizzato dalla pallina”, “mi sono smarrito nel testo”. E’ bello quando qualcosa di tuo riesce ad essere condiviso nella modalità che tu hai scelto. Per un attore, direi il massimo”.
“Ringrazio il palleggiare, il rimbalzare, ringrazio il muro trasparente che ogni tanto ti specchia e ti mostra chi saresti se non fossi quello che forse sei diventato. E ringrazio il tennis che mi ha salvato la vita. La palla torna, torna sempre”. E’ uno dei passaggi che mi piace di più. Quale il suo preferito?
“Tanti, questo è uno di quelli. A me piace molto un altro: “La partita non è finita fino a quando non è finita”. Questo vale per tutti e ogni giorno. E’ una frase che diceva un mio compagno di squadra quarant’anni fa. Lui purtroppo è scomparso di recente”.
Ci parli ora del suo rapporto col tennis. Palleggiando al Muro Max si presenta così: “Gioco a tennis per vivere anche se odio il tennis. Lo odio di una passione oscura e segreta”. Sta parlando di sè o cita Agassi?
“Entrambi. Anch’io lo odio ma non posso farne a meno. Da ragazzino ogni volta che perdevo, dicevo quella frase lì. La cosa più difficile è spiegarlo a chi vive con te. Quando mi dicono: 'Ma come anche oggi a tennis?’ Non capiscono. Ne dico un’altra. Nello spettacolo racconto della “perenne ricerca di campi coperti disponibili nelle prime ore dell’alba”, è uno dei motivi dell’amore-odio. Ecco, credo invece che la cosa più difficile sia trovare l’avversario e il compagno ideale”.
L’identikit?
“Quello che conosce tutti i tuoi limiti tennistici e psicologici ma non ne approfitta”.
Giocare ma non competere. Il suo punto debole? Quello cui un avversario non dovrebbe infierire
“Il servizio. E’ un atto di assoluta e disperata solitudine, serve ancora più tecnica e determinazione. E’ un colpo misterioso. Di grande fascino”
Anche lei come Paolo si sente colpito da “nevrosi tennistica”?
“Rassegnatevi: tutti noi che giochiamo siamo segnati da nevrosi tennistica. La differenza è tra chi ne è consapevole e chi no. E’ una nevrosi che può diventare ossessiva ma poi anche curativa e liberatoria. Il tennis è un gioco così mentale. Ogni tanto occorre staccare”.
Guarda il tennis? Lo segue in tv o live?
"Mi piacerebbe ma non ho tempo. Grazie alla tv il tennis ha ritrovato una sua popolarità. Comunque, quando riesco, partecipo più dell’emozione della competizione che del gesto atletico. Ed estetico. C’è molta estetica nel tennis…”
Potrebbe essere il titolo di un’altra piece. Secondo lei i professionisti della racchetta sono consapevoli che il loro mestiere è materia da psicoanalisi?
“Non abbastanza. E non saprei dire cosa sia meglio. Questo sport, come teorizzò Freud, è molto legato alla psicanalisi essendo uno sport così spaventosamente mentale. Con questa consapevolezza i giocatori, e le giocatrici, potrebbero migliorare molto. Oppure scoppiare. Chissà. Vincere o perdere dipende molto sempre da noi. Shakespeare ha scritto: “Un dolore calpesta l’altro tanto essi si succedono”. Una sconfitta può diventare una catena di sconfitte. Bisogna capire come frenarla o spezzarla. Ecco qui la solitudine del tennista: difficile da capire, pesante da sopportare. E la faccenda da fisica e tecnica diventa mentale”
Nei momenti più arrabbiati - o depressi - del monologo tocca sempre di rovescio e per giunta in back. Quando indugia nei momenti di intimità tra Max e Giulia, sono quasi sempre volée o tocchi di polso sotto rete. C’è una correlazione tra i colpi e lo stato d’animo?
“Questa è ciò che io definisco la ‘drammaturgia della pallina’ che diventa parte integrante del testo. La pallina una parola, un tuo modo per comunicare. Capisci un giocatore dalla sua sensibilità sulla pallina”.
Allora, facciamo un gioco e definisca i colpi nell’ambito di una griglia emotiva. Il diritto in top bello carico sta per…?
“Gioia, sicurezza, positività” .
Lungolinea di rovescio?
“Quando entra è la sorpresa, quella cosa ti leva il fiato e ti fa restare a bocca aperta. Arte, il momento unico e raro della perfezione”
La prima di servizio?
“E’ l’oscuro oggetto del desiderio, quando entra non so neppure perché”.
La volée?
“Intraprendenza, coraggio, padronanza, sicurezza. La volée choppata, specie di rovescio, è il colpo più affascinante. Ecco perché la uso per raccontare i momenti più intimi della storia, l’innamoramento, la prima notte d’amore”.
E quel rovescio in back cattivo e tagliente?
“Racconta qualcosa di insopportabile, lo smacco ripetuto che si sfoga contro il muro. La rabbia contro se stessi. Mentre il diritto piatto, leggermente coperto, a tutto braccio, è un momento di gioia. Attenzione, non di felicità”.
Lo smash?
“E’ l’atto definitivo. Nel bene e nel male. Infatti lo uso solo alla fine”.
Si può dire che questo spettacolo nasca anche grazie al Covid. I teatri si stanno ripopolando. Come usciremo dalla pandemia?
“Difficile quesito. Speriamo tutti di uscirne migliori ma lo potrà decidere solo il tempo. Ci vuole ancora pazienza per capire. Come nel tennis, occorre preparare il punto e aspettare. Stare concentrati".