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Quinta puntata del nuovo format di SuperTennis dedicato al film vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 1967, e a un regista che nel tennis credeva di aver trovato la sua risposta
di Ronald Giammò | 28 marzo 2025
Roma, giugno del 1971. Al Foro Italico si gioca la finale degli Internazionali d'Italia. In campo Rod Laver e Jan Kodes. La partita è tirata e si risolverà solo al terzo set in favore dell'australiano. Al termine di uno scambio parte però una contestazione per una chiamata che non mette d'accordo nessuno: il giudice di sedia pare incerto, non sa dire con esattezza quale sia il segno lasciato dalla palla sulla terra del Centrale e discordi sono inevitabilmente i pareri dei due finalisti. Dalle tribune si alza un nervoso brusio. Quand'ecco che, e sono parole di Giancarlo Baccini, "Gianni Clerici, che invece aveva visto benissimo, saltò in campo per indicare quello giusto. Era giugno, e lui portava bermuda color kaki, canottiera rossa e cappello da cacciatore bianco con tanto di striscia di leopardo. Eppure tutti si fidarono”.
Forest Hills, settembre del 1977. Semifinale degli US Open. A giocarsi l'accesso in finale Jimmy Connors e Corrado Barazzutti. Jimbo è in vantaggio di due set ma nel terzo l'italiano comincia a rimontare ed è avanti 4-3. L'americano vacilla, i suoi colpi ora sono meno precisi e uno di questi atterra palesemente in corridoio. Tutti se ne accorgono tranne il giudice di sedia, invitato da Barazzutti a scendere per verificare con i suoi occhi. Neanche il tempo di alzarsi ed ecco invece Connors scavalcare la rete e cancellare con la suola della scarpe il segno lasciato lì dalla palla. Silenzio, incredulità, applausi. Piccolo richiamo verbale e match che riprende per esser vinto poco dopo dall'americano.
Né a Roma né a Forest Hills si saprà mai se quei due rimbalzi fossero o meno atterrati in campo o oltre le linee che lo delimitano. In un tempo privo dell'ausilio della tecnologia, ogni minuto trascorso a discutere e ogni parola spesa per sostenere l'una o l'altra tesi contribuirono solo ad offuscare quel po' di certezza che a tutti era parso di cogliere pochi istanti prima fino a farla scomparire del tutto. Inghiottita da una nuvola di terra rossa che più nessuno riesce ad afferrare.
Michelangelo Antonioni, che di tennis era un grande appassionato (iscritto al Tennis Club Marfisa di Ferrara dove ingaggiava lunghe partite contro l'amico Giorgio Bassani), lo sapeva bene e non è un caso che abbia affidato proprio al tennis l'epilogo del suo "Blow Up", film protagonista della prossima puntata di Tie Movie, il format dedicato al tennis e al cinema in onda ogni sabato alle 13.30 su SuperTennis Tv. Quel che non poteva sapere il regista insignito del Premio Oscar alla carriera nel 1995, è che a settant'anni dalla sua provocazione, nonostante tutta la tecnologia di cui oggi si disponga, siamo ancora al punto di partenza: sicuri di aver visto qualcosa, incerti quando si tratta afferrarlo.
Telecamere, replay, grandangoli, droni, occhi di falco. Continuiamo a raccogliere immagini vivisezionando una realtà nel tenero tentativo di poterla ingabbiare in fotogrammi che invece continuano a restituircela sempre diversa, sempre nuova e per questo più inafferrabile. Più si cerca di avvicinarcisi e più sentiamo la certezza farsi vaga impressione, come accade al protagonista del film: sparito il cadavere che credeva di aver visto ingrandendo il suo scatto, sparito il rullino che lo aveva immortalato e con loro la ragazza che vi era stata ritratta.
Ingannevole è l'occhio più di ogni altra cosa. Ma più della prospettiva, è lo sguardo a svelare tutte le sue contraddizioni. "Descrivimi quell'arco", dice il Gran Khan nelle Città Invisibili di Italo Calvino. E Marco Polo comincia a descriverlo, pietra dopo pietra. "Ma ti ho chiesto dell'arco", insiste il primo. E Polo: "Senza pietre non c'è arco". Ecco, forse una soluzione ci sarebbe per uscire da questo equivoco. Lasciar la parola agli oggetti, palline, righe, racchette. Lasciare a loro il compito di dire, raccontare. Per scoprire finalmente che voce abbia il vero, quale il brusio che si nasconde dietro a quel che convenzionalmente chiamiamo realtà. In molti ci hanno provato. Nessuno di loro ha mai giocato a tennis.
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