Chiudi
Relazione complessa quella tra padri e figli quando sovrapposta a quella tra coach e allievo. Quando la vittoria sul campo non sempre è sinonimo di pacificazione e il prezzo da pagare è più caro di qualche trofeo
di Ronald Giammò | 18 aprile 2025
Da una parte il determinismo sociale. Sei il luogo in cui nasci. E quindi Compton, ghetto di Los Angeles. Aspettativa di vita inversamente proporzionale al tasso di criminalità. Un presente precario, un futuro già scritto. Dall'altra la determinazione di uomo e il suo riscatto sociale. Da costruire con metodo e programmazione. La rabbia antica lasciata a decantare, solo coraggio e azzardo cui affidare la propria scommessa di salvezza. In mezzo due sorelle. Afroamericane. Lanciate alla conquista dello sport dai gesti bianchi. Nessun manuale, nessun maestro, nessuna accademia. Un carrello della spesa come raccoglitore di palline spelacchiate, cartelli sparsi su un campo dissestato di buche a ricordar loro i principi da seguire, racchette improvvisate. Tutt'intorno derisione e scherno.
Le due sorelle sono Venus e Serena Williams e quell'uomo in tuta sotto la pioggia a indicargli la strada è il loro papà, Richard. "King Richard", come raccontato dall'omonimo film di cui si tratterà nella prossima puntata di Tie-Movie, il format dedicato al tennis e al cinema in onda ogni sabato alle 13.30 su SuperTennis Tv. Folgorato, in un lontano pomeriggio di noia trascorso davanti alla tv, dal montepremi che sarebbe stato assegnato alla campionessa del Roland Garros e convinto di possedere la formula giusta per accaparrarselo. Per riuscirci occorrevano fortuna e metodo. La prima si tradusse nel concepimento da parte di mamma Oracene di due figlie femmine. Su come lui abbia invece concepito il suo metodo aleggiano ancora miti e leggende. Non c'era un gesto, non una scelta o una parola o una decisione che non segnasse una rupture con tutto ciò che sin lì era stato ritenuto giusto e utile per la costruzione di una tennista. Eppure la cosa funzionò.
Gli allenamenti, certo. La famiglia come valore, l'adolescenza da tutelare, il peso delle aspettative da non far calare su di loro provando a tenerle lontane quanto più possibile dai circuiti juniores o professionistici. Il rifiuto per i primi soldi facili promessi dai primi sponsor, incuriositi da queste due giovani sorelle afroamericane, le prime dopo Arthur Ashe a misurarsi con questo sport. All'inizio tutto sembra tenere: risultati e precocità, amore e serenità familiare. Poi accade che un giorno, durante una sessione di allenamento, Rick Macci, uno dei loro primi coach (supervisionato da papà Richard) si esprima così: "Le vedevo colpire e colpire, e lo facevano con un impegno totale, una dedizione assoluta. Poi ho capito: in loro c’era una rabbia, un desiderio ardente che non avevo mai visto in due ragazzine. Mai. E ancora ad oggi, non l’ho più rivista".
Il resto è storia. Venus è la prima a scuotere il mondo, Serena arriverà pochi anni dopo per conquistarlo definitivamente. Papà Richard, all'inizio sempre presente in tribuna con i suoi occhiali scuri e il volto contratto, finirà col defilarsi sempre di più. Prima dai campi, poi dalle vite delle due sorelle. Rancorose e avvitatesi in un rapporto i cui nodi solo il tempo, molto lentamente, si premurerà di sciogliere. Ne è valsa la pena? Si poteva fare di meglio?
C'è che a sovrapporre queste due figure - quella di genitore e quella di coach - resta sempre qualche angolo scontornato da far combaciare. Mike Agassi, papà di Andrè, fino a qualche anno fa se ne stava ancora in Nevada con la sua macchina spara palline ad intestarsi i meriti per la realizzazione del talento del figlio: disciplina e severità. E quanto sia stato sbagliato tutto quanto fatto dagli altri dopo di lui: le scelte, il nuovo coach, le strategie di gioco, financo la moglie (tal Steffi Graf…). La lista è lunga. Jelena Dokic per anni fu vessata dal padre che continuava ad esigere da lei vittorie e vittorie; Stefano Capriati impiegò anni per ricucire un rapporto partito col piede sbagliato con sua figlia Jennifer; Judy Murray, giudiziosamente, ritenne giusto farsi da parte quando la carriera di suo figlio Andy cominciò ad impennarsi, mentre Gino Darderi, Bryan Shelton o Stefano Cobolli sono ancora lì, saldi e amati ai loro posti di comando.
Genitori e coach, un'autorità ibrida, una voce sempre uguale eppure diversa, da provare ad ascoltare scoprendo nuove forme di disaccordo e confronto, accettando di sentirsi dire ciò che non funziona e quel che ancora non va - ieri come oggi - e a fine mese staccare un assegno per il servizio offerto. Meglio forse fare altre scelte. Optare per altri maestri, altri esempi. Volar via dal nido col proprio bagaglio di valori e imparare a diventare grandi facendo i conti con la propria fallibilità senza il rischio di deludere alcuna aspettativa. Ha detto Jannik Sinner alzando al cielo il trofeo degli Australian Open: "Ringrazio tutte le persone che stanno seguendo da casa, soprattutto la mia famiglia. Auguro a tutti i bambini di avere la libertà che ho avuto io, vorrei che tutti avessero dei genitori come i miei, non mi hanno mai messo sotto pressione e mi hanno permesso sempre di scegliere". E di sbagliare.
Leggi anche:
Game, set, suspense: a Tie-Movie la lezione di sir Alfred Hitchcock
"Il tennis è una relazione": a Tie-Movie è la volta di Challengers
Quando l'effimero si fa eterno, a Tie-Movie va in scena Players
Appuntamento col Diavolo, Tie-Movie celebra "Match Point"
La realtà, istruzioni per l'uso. Tie-Movie e il caso "Blow-Up"
Borg vs McEnroe, rivalità da cinema a "Tie Movie"
"La battaglia dei sessi", Tie-Movie celebra Billie Jean King
Non ci sono commenti